sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Francesco Pallante

Il Manifesto, 21 novembre 2023

Tra le misure previste nell’ennesimo provvedimento-sicurezza del Governo, quella che prevede l’inasprimento della norma sulla revoca selettiva della cittadinanza riapre una ferita che sanguina nel nostro ordinamento costituzionale dal 2018. Il colpo iniziale era stato inferto dal primo Governo Conte - con Matteo Salvini spadroneggiante dal Viminale - tramite l’introduzione nella legge sulla cittadinanza di un’inaudita discriminazione interna alla categoria dei cittadini, consistente nella possibilità, in caso di condanna definitiva per reati di matrice terroristica, di revocare la cittadinanza a coloro che l’hanno acquisita nel corso della loro esistenza e non anche a coloro che cittadini lo sono per nascita da genitori italiani.

Una scelta dal chiarissimo significato politico e giuridico. Anche una volta acquisita la cittadinanza, le persone non nate da cittadini italiani mai potranno essere realmente ritenute italiani come gli altri (vale a dire, al pari di coloro nelle cui vene scorre sangue italiano), ma rimangono comunque soggetti da guardare con sospetto: una potenziale minaccia alla pubblica sicurezza, da mantenere in condizione di perenne minorità giuridica.

È incredibile che si sia sentito il bisogno di adottare una simile misura in un Paese rimasto sinora immune da attentati terroristici analoghi a quelli che hanno sconvolto la Francia, il Belgio, la Spagna, il Regno Unito e altri Paesi. Ma, soprattutto, è incredibile che si sia così sottovalutato il nodo costituzionale sottostante. Il fatto è che la cittadinanza è istituto necessariamente unitario, non ripartibile in categorie differenziate pena la sua stessa negazione. Cittadini si diventa, con la Rivoluzione francese, nel momento in cui i molteplici status cetuali che, in età premoderna, definivano peculiarmente il rapporto dei singoli esseri umani con l’autorità si fondono in una condizione universale, definibile in termini di diritti e doveri uguali per tutti. L’idea di cittadinanza è indissolubilmente legata a quella di uguaglianza. Se l’autorità può di più o di meno nei confronti di qualcuno, allora a venire in rilievo è il privilegio di chi ha meno doveri o più diritti, vale a dire lo status che differenzia il privilegiato rispetto agli altri. Esattamente com’era prima del 1789.

Ed esattamente com’è, dal 2018, nell’ordinamento italiano. Quando, infatti, si tratterà di punire il responsabile di talune condotte criminali, a contare non sarà cosa si è fatto, ma chi si è: se un membro della categoria privilegiata oppure no. La stessa azione produrrà conseguenze differenti a seconda di chi ne è l’autore, in clamorosa violazione del principio di uguaglianza formale sancito dalla Costituzione. Replicare che l’ordinamento già prevede ipotesi in cui la cittadinanza può venire revocata sarebbe sbagliato, perché quelle ipotesi valgono ugualmente per tutti, siano cittadini dalla nascita o lo siano diventati nel tempo. Sono ipotesi che, nel rispetto dell’uguaglianza formale, non creano una categoria di cittadini di secondo rango, come invece fa il decreto-sicurezza del 2018.

Dal punto di vista pratico, la normativa attualmente in vigore prevede che la cittadinanza sia revocata con decreto del Presidente della Repubblica, su iniziativa del ministro degli Interni, entro tre anni dalla condanna penale definitiva. La modifica proposta dal Governo vorrebbe estendere il termine a dieci anni, così prolungando il periodo durante il quale il cittadino inferiore per status rimane in balìa delle decisioni del potere. È chiaro che, dal punto di vista teorico, siamo al cospetto del più grave scostamento dal quadro costituzionale mai verificatosi nella storia repubblicana. Il Presidente della Repubblica, garante della Costituzione, sbagliò non rinviando alle Camere la disposizione in parola nel 2018. Altrettanto farebbe se non la rinviasse oggi. La prima promulgazione non è un buon motivo per decidere anche la seconda. Due errori non fanno una cosa giusta e saper agire a, sia pur parziale, correzione dei propri sbagli sarebbe una dimostrazione di forza, non di debolezza.