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di Beatrice Branca

Corriere di Verona, 13 agosto 2024

Prima la promessa di ottenere un permesso di soggiorno in Italia e di essere regolarizzati con un contratto di lavoro nel settore agricolo. Poi l’amara sorpresa di essere sfruttati e ridotti in schiavitù nei campi del Basso Veronese. I braccianti, salvati la scorsa settimana dalle fiamme gialle, non solo dovevano lavorare 7 giorni su 7 e per 12 ore nei campi, ma nel restante tempo libero - se così si può definire - dovevano anche recarsi nell’abitazione di uno dei due caporali e svolgere ulteriori lavori domestici non retribuiti. Questo dettaglio emerge dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa sabato 10 agosto dalla giudice per le indagini preliminari Paola Vacca nei confronti dei due fratelli indiani J.S. di 47 anni e K.S. di 48 anni, assistiti dall’avvocato Emanuele Luppi, entrambi residenti a Cologna Veneta e ora in carcere a Montorio. I due sono indagati per la riduzione e il mantenimento in schiavitù di una trentina di braccianti tra i 20 e i 35 anni, immigrati in Italia dall’India per lavorare tra Cologna Veneta, Pressana e Minerbe. Ogni giorno i braccianti, caricati su alcuni furgoni, venivano portati nei campi agricoli e, durante il tragitto, avevano il “divieto di parlare - si legge nell’ordinanza - e di far rumore per non attirare l’attenzione dall’esterno”.

Ai lavoratori era stato inoltre confiscato il passaporto per evitare la fuga una volta scoperta la truffa, oltre a essere privati della “libertà di autodeterminarsi - viene riportato nell’ordinanza - circa il luogo ove vivere, le condizioni di vita, la vita sociale, il diritto di muoversi”. I braccianti erano infatti costretti ad alloggiare in tre abitazioni: 16 di loro erano stati sistemati in una casa con tre camere da letto e un solo bagno, mentre gli altri 15 soggiornavano in abitazioni adiacenti allestite a dormitori. Chi voleva poi uscire per fare la spesa o per altre commissioni poteva farlo “solo se accompagnato da persona di fiducia - emerge nell’ordinanza -, in modo da inibire qualsiasi contatto con persone che potessero interessarsi ai loro casi e trarli a salvamento”. I lavoratori che cercavano poi di opporsi alla situazione di sfruttamento, alla privazione della propria libertà personale o cercavano di andarsene, venivano ulteriormente intimiditi con minacce “dirette sia a loro sia alle famiglie in patria, e angherie fisiche se solo facevano mostra di volersi ribellare”.

Già a inizio luglio la guardia di finanza aveva confiscato quasi 458mila euro ai due fratelli che avevano dichiarato di non aver assunto alcun dipendente nelle loro aziende agricole. Uno di loro non aveva infatti nemmeno presentato la dichiarazione dei redditi, mentre l’altro aveva dichiarato solo poco più di 2.100 euro di entrate dai terreni. Le indagini delle fiamme gialle hanno invece portato alla luce una situazione di caporalato, dove i quasi 458mila euro confiscati erano infatti il frutto dello sfruttamento dei braccianti “ridotti al rango di utensili e trattati peggio di macchinari”, viene precisato nell’ordinanza. I due caporali risultano inoltre titolari di un’agenzia di reclutamento di lavoratori in India con cui probabilmente erano state intercettate le vittime: a loro chiedevano tra i 16mila e i 19mila euro per essere regolarizzate in Italia, oltre a prelevare ulteriore denaro dai compensi di 5 euro all’ora per il loro mantenimento. La misura di custodia cautelare in carcere è stata quindi introdotta sia nel timore che i due indagati possano scappare o inquinare le prove, sia per evitare che, con la loro agenzia di reclutamento, possano “reperire altre vittime da destinare alla schiavitù in Italia”.