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di Antonio Armellini

Corriere della Sera, 26 marzo 2024

Non esistono soluzioni facili, “aiutiamoli a casa loro” certo: ma cosa faremmo nei quindici-vent’anni prima che queste misure avessero effetto? Nauru è un’isoletta sperduta nel Pacifico, un tempo famosa per i suoi francobolli e i giacimenti di fosfati naturali (in pratica, guano). Poi i fosfati sono diventati chimici e Nauru si è reinventata come centro offshore assai dubbio e, soprattutto, come luogo di accoglienza dei rifugiati respinti dal governo australiano. In Australia se ne parla poco, Nauru è lontana e la cosa sembra andare bene a (quasi) tutti.

È a questo esempio che forse pensava Boris Johnson col piano di respingimento in Rwanda dei migranti. Innanzitutto, il Rwanda è efficiente, ma è tutto fuorché un paese in cui i diritti umani vengono tutelati. Londra sostiene che i rifugiati avrebbero la possibilità di crearsi un futuro migliore in questa parte dell’Africa: peccato che provengano quasi tutti dalla Siria, dal Pakistan e dall’Afghanistan, e i pochi africani dall’Africa occidentale, che è un altro mondo dove si parla francese, e non inglese. Anche qui, il destino che si annuncia è una deportazione senza futuro.

Poi c’è Israele, dove si è seriamente discusso di deportare centinaia di migliaia di palestinesi nel Congo - ancora una volta, in un paese con il quale non avrebbero alcun tipo di legame, culturale, sociale e anche linguistico - prima che l’enormità del tutto abbia apparentemente fatto prevalere una maggiore prudenza. Paradossalmente, il nostro accordo con l’Albania appare una misura più “umanitaria”: le distanze non sono enormi, non si cambia di continente e l’ipotesi di un reinserimento non è esclusa a priori. Però…

Il tema delle migrazioni è strutturale e non esistono soluzioni facili (“aiutiamoli a casa loro” certo: ma cosa faremmo nei quindici-vent’anni prima che queste misure avessero effetto? La crescita di economie avanzate di trasformazione ridurrebbe i flussi migratori ma creerebbe problemi di riaggiustamento delle nostre economie; non dovremmo rifletterci urgentemente? E così via). Cancellare dalla vista, deportare, alzare nuovi steccati non sono una via di uscita. Primo, perché rallentano, ma non fermano gli arrivi. Secondo, perché l’immigrazione è un volano necessario della nostra prosperità, anche se a qualcuno sembrerà strano. Terzo, perché assistere chi fugge da guerre e miseria non è solo un impegno morale, ma un obbligo preciso per democrazie fondate sulla libertà e la dignità della persona; rispettarlo a parole, violandolo nei fatti, ne mina la credibilità.

Dall’esito del confronto fra democrazie liberali e la deriva illiberale e autoritaria che avanza dal Sud del mondo, dipenderanno gli assetti del confuso mondo multipolare in cui stiamo entrando, che per noi europei sarà inevitabilmente più multietnico. Cercare di governarli non è tanto questione di solidarietà e inclusione, quanto di sopravvivenza di un modello di civiltà; rinunciare a rivendicarne il valore universale in cambio di chiusure illusorie e di vantaggi strumentali di corto respiro, sembra un autolesionismo inaccettabile.