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di Soumaila Diawara*

La Stampa, 21 ottobre 2024

Mi chiamo Soumaila Diawara e non sono né un cane né un porco, sono un rifugiato. Da dieci anni questo paese, l’Italia, è la mia casa. Qui sono stato accolto, qui sono riuscito a ricostruire la mia vita spezzata. Eppure da due giorni non faccio che pensare a quelle parole, non faccio che pensare che per qualcuno sono un “cane”. Un “porco”. Un pericoloso nemico della nazione che mi ha dato una seconda possibilità. Un delinquente qualsiasi pronto a rubare, addirittura a stuprare. Sabato ero seduto a cena con mia moglie, in una sera come tante, quando ho ascoltato dal Tg1 le affermazioni piene di disumanità del ministro Salvini. L’ho sentito paragonare me e quelli come me a degli animali, con un linguaggio volgare e aggressivo che ho trovato inaccettabile.

Siamo noi i cani e i porci, noi migranti e rifugiati? Noi perseguitati, noi torturati nelle carceri libiche? Noi che abbiamo rischiato la vita in mare? Io, è vero, da animale sono stato trattato nel mio viaggio verso l’Italia, quasi tre anni attraverso l’inferno, mentre cercavo solo di salvarmi la vita. Ho lasciato il Mali nel 2012, dopo il colpo di Stato dei militari. Prima di allora la mia vita era normale, a Bamako avevo una casa e da poco avevo terminato gli studi. Ma il mio attivismo nel Sadi, il partito della Solidarietà Africana per la Democrazia e l’Indipendenza, una formazione politica di opposizione, faceva di me un nemico. Così come centinaia di migliaia di miei connazionali mi sono rifugiato prima in un paese vicino: l’Algeria. Ad Algeri avevo trovato lavoro. Ma quando è scoppiata l’epidemia di Ebola nei paesi subsahariani, tanti nel Maghreb hanno iniziato a pensare che fossimo noi neri a portare il virus. Eravamo discriminati ed era rischioso restare. Avevo ottenuto un visto di studio per la Svezia, che mi permetteva di entrare in Europa legalmente. Ma il giorno della partenza, in aeroporto senza alcuna spiegazione, non mi hanno permesso di partire, nonostante avessi i documenti in regola.

La scelta obbligata è stata quella di entrare all’Inferno vero, in Libia. Il posto più pericoloso dove sia mai stato e dove non augurerei neanche al mio peggior nemico di finire, neanche a chi mi considera un animale. Sono stato rinchiuso in un centro di detenzione libico per più di un anno e mezzo. E quello che ho subito è ancora inciso sulla mia pelle, dove resterà. Le cicatrici che ho sulla schiena, sulle braccia e sulle gambe, sono ognuna il ricordo di una tortura. Di quelle botte che i trafficanti di uomini, miei carcerieri, mi infliggevano per chiedermi di chiamare casa e chiedere soldi. Non ero il solo a subire di tutto. Le donne venivano costantemente stuprate, alcune portate fuori dal centro, costrette a prostituirsi e poi violentate di nuovo dalle guardie una volta dentro.

È anche difficile parlarne, perché tanto orrore non si può descrivere. Alla fine del 2014 sono riuscito a mettere insieme i soldi per uscire da quel posto irraccontabile, un buco nero che risucchia le vite di tanti di noi. E ho provato la traversata in mare. Una scommessa al buio. Eravamo in 120, stipati in un barcone di legno. Ricordo quei momenti con terrore, non vedevo nulla, mi mancava il respiro, pensavo che da un momento a un altro saremmo potuti finire in mare. Tanti non sanno nuotare. E ci sono le onde, nere, sconosciute, spaventose. Intorno a me le persone piangevano e urlavano dalla disperazione. Qualcuno pregava. Ci siamo sentiti al sicuro solo quando una nave della Guardia costiera è arrivata a salvarci. Avevo 26 anni. Ero un giovane uomo, non un animale.

Oggi, che vado nelle scuole a raccontare ai giovani cosa significhi essere un rifugiato, penso a quei ragazzi, soccorsi in mare come è successo a me, anime perse che invece di iniziare un percorso per il riconoscimento dei loro diritti in Italia sono finiti nei centri in Albania. E poi sono stati riportati indietro. Gli studenti mi fanno tante domande, vogliono capire perché si lasci il proprio paese a rischio della vita, domande che non si pone chi ci governa. Mi domando se qualcuno abbia spiegato ai migranti portati avanti e indietro con l’Albania cosa stava succedendo. Li immagino smarriti come ero io appena arrivato. Avranno pensato di essere finalmente arrivati: sono ancora in un limbo. E poi quelle parole. Che dimostrano solo l’arroganza del potere, di chi si sente al di sopra di tutto, anche del rispetto delle leggi e dei diritti umani.

*Testo raccolto da Eleonora Camilli