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di Eleonora Camilli

La Stampa, 28 settembre 2023

Casa Giona a Roma: John si rinchiude nella sua cameretta e mette ossessivamente a posto tutti gli oggetti, Khaled, egiziano, non vuole parlare dei giorni in Libia: “Botte, botte, solo botte”. Di notte John fatica ancora a dormire. Appena chiude gli occhi, i giorni passati nei centri di detenzione in Libia tornano prepotentemente in forma di incubi. Le sue urla strazianti svegliano gli altri ragazzini, ospitati come lui nel centro per minori stranieri soli, Casa Giona, a via Tiburtina, periferia di Roma. Le violenze subite e quelle viste hanno lasciato un segno indelebile, un dolore difficile da raccontare anche alla psicologa. Così John (nome di fantasia) si rinchiude nella sua cameretta e comincia a pulire e a mettere ossessivamente a posto tutti gli oggetti. Poi, per sfogarsi, va a correre per almeno due ore.

È partito poco più che bambino dalla Costa D’Avorio per sfuggire a una situazione di grave povertà. Dopo aver perso entrambi i genitori, è stato affidato al fratello più grande, ma in casa una bocca in più da sfamare pesava e sono iniziati i primi dissidi con la cognata. Fin quando il ragazzo ha deciso di partire e tentare il viaggio. Il deserto prima, l’inferno della Libia poi e infine la rotta del mare. Oggi che di anni ne ha sedici, qui in Italia sta provando a rimettere insieme i pezzi della sua vita.

“È arrivato da noi quattro mesi fa - racconta Simona Bosi, l’assistente sociale che segue diversi progetti dedicati ai minori non accompagnati nella Capitale -. Subito lo abbiamo inserito in un percorso di sostegno psicologico che chiamiamo Ferite invisibili. Gli incubi sono ancora ricorrenti, ma piano piano, grazie all’aiuto degli specialisti, sta migliorando. Lo aiuta lo sport a lenire quello che ha dentro ma la strada è ancora lunga”.

I ragazzi ospitati in questo centro gestito da Caritas Italiana sono dieci, hanno tra i 14 e 17 anni. La mattina vanno a scuola, all’istituto don Bosco, nel pomeriggio si dedicano a varie attività, dallo sport alle uscite con gli amici. La maggior parte sono egiziani, ma ci sono anche maliani, gambiani e ivoriani. In tutto, sono 11.650 i minori arrivati soli in Italia dall’inizio dell’anno. In gergo burocratico li chiamano “misna”: minori stranieri non accompagnati. Sono tra i più vulnerabili tra i migranti: ragazzini, cresciuti troppo in fretta e arrivati in Italia da soli, dopo viaggi durissimi, dove hanno subito e visto di tutto. E per questo hanno diritto a tutele e protezioni adeguate. Che ora il nuovo provvedimento del governo vuole rivedere, prevedendo modalità più stringenti di accertamento dell’età e la possibilità di ospitarli in centri insieme agli adulti. “È ovvio che tutto questo ci preoccupa - aggiunge Bosi -. Cosa sarebbe successo a John se fosse capitato in un centro con cento persone, tra minori e adulti? Chi avrebbe compreso la sua vulnerabilità?”.

Intanto, nel campetto di fronte alla struttura alcuni dei minori improvvisano una partita a pallone. Khaled, 16 anni, originario dell’Egitto si mette in porta, gli altri tirano i calci di rigore. Ama il calcio, dice, e tifa Roma perché lì ha giocato il suo idolo indiscusso, il calciatore egiziano Mohamed Salah. Ma a differenza di tanti suoi coetanei, non ha sogni di gloria, non gli interessa provare a fare il calciatore, quello che vorrebbe è iniziare presto a lavorare in un ristorante, come cuoco o meglio come pizzaiolo. Oltre alla scuola dell’obbligo, frequenta un corso di formazione, per ora sta studiando le mansioni di sala, ma il suo sogno è stare ai fornelli. Ha lasciato la sua città un anno fa per aiutare la famiglia. Già piccolissimo aveva abbandonato la scuola per iniziare a fare dei lavoretti. Il padre ha una forma grave di diabete e ha dovuto smettere di lavorare così è toccato a lui, unico figlio maschio, sostenere la famiglia. “Ho lavorato in una lavanderia, poi in una gelateria e infine in un posto dove si organizzavano matrimoni, ma i soldi erano sempre troppo pochi. Così d’accordo con i miei genitori sono andato a Tobruk, in Libia, per provare a venire in Europa”.

Di quei dodici giorni passati lì preferisce non parlare, scuotendo la testa ripete solo “Libia, botte, botte”. Racconta che anche il viaggio non è stato facile: “Eravamo in 700 su un peschereccio, avevo paura. Allora ho chiamato mio padre, piangeva anche lui. Ma ora ce l’ho fatta”.

Nel cortile, colorato di murales, Tareq ascolta la musica dal telefono. Con Khaled si conoscono da bambini, provengono entrambi dalla zona di Gharbiyya e hanno fatto lo stesso percorso. Una volta in Sicilia, Tareq è stato ospitato in un centro per “misna” a Catania. Ma dopo pochi giorni, è scappato per raggiungere Roma, dove abita suo zio, convinto di poter stare con lui. Due settimane dopo, però, l’uomo l’ha accompagnato in auto davanti alla questura e gli ha detto di chiedere lì un posto dove stare. Da allora non si sono più sentiti né visti. Anche Tareq vuole iniziare a lavorare presto, come meccanico di automobili. “Spesso sono le famiglie che li incentivano a partire per motivi economici - spiega Maria Franca Posa, responsabile dei servizi per minori di Caritas -. Fatichiamo a spiegargli che sono piccoli per lavorare. Ma sentono forte la responsabilità di dover mandare i soldi a casa. Hanno un’età, però, per cui vanno protetti, sono vulnerabili, il rischio è che possano finire in giri strani”.