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di Massimiliano Peggio

La Stampa, 16 dicembre 2023

“Sì, qui ero sulla barca in mezzo al mare. Io non avevo paura, le donne sì. Ma non c’erano onde grosse. Eravamo 400 persone. Dalla Libia a Lampedusa. Ho pagato 4 mila euro”. Mohamed mostra un video sul suo telefonino. “Questo sono io con i miei amici”, dice. Quando è arrivato in Italia ha spedito il filmato ai genitori, in Egitto. “Li sento tutti i giorni”.

Lui come Lamia, Alagie e gli altri ragazzi hanno quasi tutti 16 anni. Ieri mattina hanno lasciato il centro di accoglienza per adulti di Castello di Annone, in provincia di Asti, e sono stati trasferiti a pochi chilometri di distanza, a Castagnole, in una casetta bianca tra le colline del Monferrato. Sempre nella provincia astigiana. All’arrivo stringono mani e osservano curiosi. Non sanno di essere dei pionieri dell’accoglienza, al di là di decreti sull’immigrazione e date di nascita. Il loro nuovo rifugio, tra le terre patrimonio Unesco, è il primo centro italiano dedicato esclusivamente a migranti minori non accompagnati.

Sono in otto. Uno arriva dalla Guinea, quattro dal Gambia, tre dall’Egitto. Tutti arrivati via mare. Dalla Libia o dalla Tunisia. “Due giorni di viaggio”. Qualcuno è stato anche portato in salvo dalla Guardia Costiera. Lamin dice di essere salito sul barcone senza sborsare un centesimo. “Hanno detto che ero molto piccolo e così mi hanno fatto partire lo stesso”. Anche lui mostra fotografie scattate in Tunisia. Seduto su un muretto in attesa della partenza o mentre mangia una baguette. Poi pigiato su un’imbarcazione di legno, con un bel sorrido facendosi un selfie. Il suo viaggio dall’Africa è iniziato più di un anno fa, quando aveva meno di 14 anni. “Vorrei andare a scuola”. Per imparare che cosa? “A fare il cuoco”.

Alagie invece racconta di aver preso il mare un giorno d’agosto, nel 2022. Partito dal Gambia, ha attraversato il Senegal, e da lì poi ha proseguito fino alla costa. Racconta che suo papà è un Imam, e che lo ha spronato ad andare via per raggiungere l’Europa. “Sulla barca eravamo in 56. Non avevamo da mangiare, solo qualche bottiglia d’acqua, o succo di frutta”. Alla fine del suo pellegrinaggio, si è ritrovato in Italia. “Mi piace stare qui, vorrei imparare a parlare l’italiano bene. Vorrei trovare un lavoro. E anche studiare, certo”.

Mentre raccontano frammenti di ricordi, si guardano attorno e ridono. Cercando il consenso di Arthur Yousuf, origini irachene, uno degli educatori del centro, veterano della Croce Rossa che da una decina di anni assiste i migranti. “Io e miei colleghi vorremmo aiutare questi ragazzi a diventare liberi. Liberi di vivere una vita”, dice. Lui traduce e spiega le loro storie. Sarà uno dei due educatori sempre presenti in questa casa gestita dalla cooperativa Fenice. E se questo progetto pilota ha preso corpo, lo si deve soprattutto al prefetto di Asti, Claudio Ventrice, che ha scommesso sul territorio, all’apparenza ostico.

“I monferrini hanno la tendenza a essere diffidenti, poi però si rendono disponibili. Sanno essere generosi” spiega Francesco Marengo, sindaco di questo paesino, più noto per le vigne e per il vino Ruché. “Certo, quando si è diffusa la notizia dell’apertura della struttura, qualcuno ha storto il naso. Anche noi amministratori siamo rimasti un po’ perplessi. Ma adesso che la casa è pronta e abbiamo conosciuto gli educatori, abbiamo capito l’importanza del progetto. Il primo in Italia. Non è cosa da poco”.

I ragazzi seguiranno corsi di lingua, faranno attività educative. E potranno anche giocare a calcio o a basket. Il Comune si sta organizzando per mettere a disposizione gli impianti sportivi. E visto che i residenti sono per lo più anziani e vogliono essere rassicurati, il prefetto ha chiesto ai carabinieri di intensificare i controlli. “Discreti, perché sono bravi ragazzi, hanno bisogno di aiuto e di fiducia” ha detto ieri, ispezionando di persona la struttura nel giorno di esordio.

Nel rifugio ci sono letti a castello, più bagni, ambienti pieni di luce, una stanza per la tv e lo svago, un ampio terrazzo con una bandiera italiana infilata alla ringhiera. E una grande cucina con il menu della settimana appeso alla parete. Per uscire dovranno indossare una sorta di divisa. Una tuta blu e gialla. “Gli educatori - spiega Stefano Rigoli, responsabile della cooperativa - li accompagneranno sempre. Non resteranno mai da soli. A tutti è stato anche distribuito un piumino. Qui, su queste colline, fa freddo d’inverno”.

All’una in punto tutti vengono invitati a sedere attorno al tavolo della cucina, per il pranzo. “I pasti - aggiunge Rigoli - sono preparati da una ditta della zona. E visto che i ragazzi sono tutti musulmani, ci fornisce cibi preparati nel pieno rispetto del credo religioso. Insomma, siamo un piccolo ristorante”. Qualcuno però esita sbirciando nelle vaschette fumanti, guardandosi attorno con aria interrogativa. “Non preoccupatevi, non c’è maiale - interviene rassicurante Arthur parlando un po’ inglese e un po’ arabo - È tutto cibo per musulmani. Mangiate tranquilli. Buon appetito”.