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di Francesca Paci

La Stampa, 15 marzo 2024

Sessanta persone che muoiono di fame e di sete in mezzo al mare sono il prezzo delle nostre paure. Quelle paure che, fondate su concreto disagio sociale o talvolta solo percepite, gonfiano il vento in poppa ai populisti. Perché, ripete giustamente l’ex premier Romano Prodi fotografando lo spirito del tempo, “chiunque picchi in testa ai migranti vince le elezioni”. I migranti sono l’ultima trincea identitaria quando tutte le altre hanno ceduto alla prova della realpolitik e alle spietate contraddizioni del governare.

Domenica la premier Giorgia Meloni sbarcherà al Cairo anche per negoziare con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, l’ennesimo “dittatore necessario”, un accordo sul controllo delle frontiere del genere sdoganato mesi fa con la Tunisia di Kais Saied. Un precedente che fa scuola: sebbene infatti continuino senza tregua le partenze dalla Tripolitania, i flussi dalla Tunisia sono diminuiti e siamo passati dai 19.937 sbarchi di un anno fa ai 5.968 attuali, un crollo netto del 70%. Peccato che, a fronte di tanti arrivi in meno, siano aumentati i morti. Con l’ultimo naufragio raccontato dalla Ocean Viking, il Mediterraneo centrale, la rotta più pericolosa, conta già 275 vittime, donne, uomini e bambini che, disidratati, ustionati, consumati dalla traversata, hanno aspettato invano i soccorsi.

Le partenze invece no, con buona pace delle mille promesse del Piano Mattei e dei volenterosi propositi di “aiutarli a casa loro”, quelle non si fermano se non previo rastrellamenti selvaggi del tipo in corso in queste settimane dalla Tunisia o detenzione feroce nei famigerati centri libici. E non si fermeranno: per quanto Meloni, accompagnata dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, scommetta sulla stabilità del regime di al Sisi - lo stesso che nega verità e giustizia su Giulio Regeni - la sponda sud del Mediterraneo è un confine incontrollabile. L’Egitto con i suoi 110 milioni di abitanti è teoricamente too big to fail ma boccheggia sotto il peso di una crisi economica senza precedenti su cui incombe la crisi della Striscia di Gaza, il Niger della nuova giunta golpista ha cancellato la legge che bloccava il passaggio dei migranti subsahariani e rischia di trasformarsi in un’autostrada, il Sudan resta un incognita. Le partenze non caleranno ma anzi, con la buona stagione all’orizzonte, potrebbero moltiplicarsi. E chiunque prometta il contrario picchia in testa ai migranti per vincere le elezioni. Propaganda.

I due mesi e mezzo che ci separano dalle europee saranno una corrida in cui verrà agitata a oltranza la spaventosa muleta dell’invasione. Ne ascolteremo di ogni sorta. La soluzione non c’è, i flussi non sono contenibili a meno di istituire ingressi legali e prevedere corridoi umanitari. I dati lo confermano, gli elettori lo capiscono. Ma, a partire dal popolo delle destre per allargarsi oltre, il voto ha premiato finora chi ha promesso di fare qualcosa, chi ha mostrato i muscoli, chi si è fatto paladino delle paure sociali. L’anatema più che la soluzione. È un pattern tattico, sul momento paga.

A dicembre il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto passare con il voto del Rassemblement National di Marine Le Pen una legge sull’immigrazione che, sebbene depotenziata poi dal Consiglio Costituzionale, vorrebbe limitare le prestazioni sanitarie per i migranti a vantaggio dei cittadini della Republique e che raccoglie il consenso della stragrande maggioranza della popolazione. L’Europa virtuosa dei Paesi nordici ha da tempo ripensato le politiche di accoglienza. Oggi la premier Meloni, al cui governo cominciano tra l’altro a chiedere conto le categorie storicamente amiche come i balneari, distoglie l’attenzione dalla luna e mostra il dito, i migranti, il feticcio dei migranti. Quelli veri, le donne egli uomini in carne e ossa muoiono di fame in mezzo al mare, il prezzo delle nostre paure. Tutto normale? Qualcuno in qualche campo, largo o stretto che sia, dovrebbe, se c’è, battere un colpo: a costo di non vincere le elezioni