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di Concita De Gregorio

La Stampa, 2 marzo 2023

Pensare di fermare le partenze è un esercizio ipocrita: non si può trattare con chi tortura e uccide. Domande di semplicità estrema, perché di fronte alle enormità questo succede: l’essenziale torna per incanto a essere tutto quello che serve e che basta. Dunque per esempio. È vero che un modo sicuro per non rischiare la vita è non partire, come saremmo certissimi di non divorziare se evitassimo di sposarci e di avere figli se non facessimo l’amore.

È anche vero che l’essere umano tende a fare quel che gli sembra più propizio in quel momento e che è istintivamente propenso a correre il pericolo minore. Sempre secondo la sua percezione che, si sa, è spesso fallace specie col senno di poi: quindi ostinatamente l’umanità da secoli si unisce in matrimonio o quel che è, si riproduce talvolta sbadatamente e se la casa è in fiamme si butta dalla finestra, poiché la certezza di morire bruciati è un terrore superiore all’eventualità di schiantarsi. Darei per certo che nessuno tra i padri e le madri che si imbarcano coi figli bambini voglia uccidersi e ucciderli, è una certezza che nasce dalla capacità che volendo abbiamo di metterci nei panni altrui: lascereste voi stasera la vostra tiepida casa con una borsa e i bambini in braccio per imbarcarvi al buio in mare ad Anzio, a Marina di Ragusa se non fosse meglio, quel mare nero, della casa e della vita che lasciate?

Nessuno lo farebbe. Quindi la questione non è fermare le partenze, perché le partenze non si possono fermare: si stanno buttando dalla casa in fiamme, lo faranno comunque. Pensare di trattare coi piromani che incendiano quelle case e quelle vite è un esercizio retorico, ipocrita e fasullo: non esiste nessuna possibilità di convincere a non farlo chi per metodo tortura, uccide, imprigiona, toglie libertà e diritti al suo popolo quando il popolo non obbedisce al capriccio del tiranno. Trattare con chi lucra sul traffico di vite e ricatta con la chimera di chiudere i confini non serve, non raggiunge lo scopo. Dunque non esiste la possibilità di “non farli partire”. Chi lo dice inganna consapevolmente. Eliminiamo questa favola.

Eliminiamo anche la fandonia che soccorrere chi sta morendo sia di sinistra e non farlo sia di destra, non vorremmo certo offendere l’elettorato di destra. Se toccasse a un elettore della Lega o di Fratelli d’Italia avere un figlio naufrago (poniamo, per disgrazia) siamo certissimi che pretenderebbe, con ragione, che fosse salvato dalla più vicina Guardia costiera o, come è nella legge del mare, da qualunque imbarcazione privata lì vicina. Soccorrere chi sta morendo è una legge universale dell’uomo. Non farlo è vile, un tormento perpetuo, è un reato. Non è ideologia, è essere persone o essere bestie. Ma nemmeno le bestie, in verità: le bestie insegnano.

Quindi oggi che contiamo diciotto bambini morti e sessantasette cadaveri - vittime di soccorsi che non sono arrivati, di decreti che sono stati emanati, di burocrazie delle responsabilità e di inerzie relative, chi deve andare? Sono io? No sei tu. Parliamone, mentre quelli annegano - la vera domanda da farsi è una. Sarebbero partite su una barca che poteva contenere la metà dei passeggeri, quelle persone, se avessero potuto pagare gli stessi denari che hanno dato agli scafisti per comprarsi un biglietto aereo, un posto sul traghetto? Certamente no. Lo fanno perché abbiamo deciso che sono i nostri nemici: ci invadono, non possono entrare. Lo fanno, illegalmente, perché non possono scappare dal fuoco legalmente. Abbiamo stabilito noi Europa, noi Occidente, che essere nati in un posto diverso da questo - per caso, non scegli dove nascere - sia un problema loro. Vi ammazzano, vi stuprano, vi affamano? Pazienza per voi. Non sono affari nostri.

Ma lo sono, invece. Pensare che siano i confini a disegnare i destini è contrario all’evidenza, e non c’è niente di più stupido che discutere con la realtà. Viviamo, abbiamo insegnato ai nostri figli a vivere in un mondo senza confini: il mondo che hanno in mano, sullo schermo del telefono. Indossiamo le stesse sneakers dei ragazzi impiccati a Teheran, ascoltiamo la stessa musica in ogni angolo del globo. Solo che poi all’improvviso torniamo padroni a casa nostra, quando chi ha meno o non ha nulla immagina per sé e per i suoi figli una vita migliore. Come se non fosse successa a noi la stessa cosa, solo pochi decenni fa, quando i nostri bisnonni sono sbarcati a Ellis Island e hanno cambiato nome, si sono sottoposti a esami e umiliazioni pur di darsi e dare ai loro eredi una possibilità di essere felici, più felici, o anche solo di vivere. È retorica? Mah. Chiedete ai vostri vecchi, se avete a chi chiedere: è un privilegio che dimentichiamo spesso quello di domandare e ascoltare le storie di chi abbiamo a casa.

I confini esistono, tuttavia. Sui confini si combattono guerre identiche oggi a quelle che studiamo, quando per buona sorte possiamo studiare, sui libri di storia. Per un metro di terra si battono russi e ucraini, proprio ora. Ma i confini nel mondo globale non ci sono più, invece. Siamo tutti connessi, tutti abbiamo in mano un mondo diverso dal nostro e accessibile, no?, se migliore. Allora i confini ci sono o non ci sono? È una questione culturale prima che politica, destra e sinistra non c’entrano. È avere presente il tempo in cui viviamo o negarlo a intermittenza, se e quando conviene.

Non c’è molto da dire, sull’Europa, se l’Europa non è in grado di essere mondo. E il mondo è questo, non si ferma dicendo non mi piace. È questo. Sedersi a un tavolo, prendere atto della realtà e dare una risposta sensata, umana e politica insieme, a quel che con evidenza accade e non si ferma per decreto, per ideologia, per piccola e privata convenienza: sarà possibile? Esiste qualcuno, alla guida di questi nostri governi opulenti e occidentali, in grado di vedere la foto più grande? Di pensarsi al posto di? Di capire che chi si imbarca a rischio di morire (e sono la minoranza, non dimentichiamolo mai, di coloro che migrano per terra e si incamminano per monti) lo fa perché non vede alternativa a quel rischio? Se no, se nessuno tra i ministri d’Europa è in grado di pensare a uno di quei diciotto bambini come a suo figlio, allora è morta la politica. È morta la democrazia e la presunta supremazia dell’Occidente. Siamo morti, anche se sembriamo vivi, tutti noi.