di Maurizio Ambrosini
Avvenire, 21 agosto 2024
La tragedia di Palermo, con la mobilitazione per salvare i sopravvissuti e trovare i dispersi, ci spinge a una riflessione ulteriore: perché coi migranti non accade? Ci sono naufraghi e naufraghi. Non sorprende l’emozione suscitata e la grande mobilitazione per trarre in salvo le persone (occidentali e benestanti) coinvolte nel naufragio del mega-yacht Bayesian, nave a vela di 56 metri di lunghezza, al largo di Porticello, 20 chilometri da Palermo. C’è trepidazione per i sei dispersi, tra cui il tycoon tecnologico Mike Lynch, il Bill Gates britannico, mentre i quindici salvati sono stati immediatamente condotti al pronto soccorso di Termini Imerese. Sempre in mare si dovrebbe agire così, sempre si dovrebbe palpitare per la sorte dei naufraghi, sempre bisognerebbe ricoverare a terra gli scampati il più presto possibile.
Purtroppo però queste basilari regole di umanità non valgono per tutti. Colpisce la distanza tra la giusta empatia rivolta ai passeggeri dello yacht e il trattamento politico, mediatico, e si potrebbe dire “antropologico” riservato ai naufraghi dei viaggi della speranza dalla costa sud del Mediterraneo. Scaricabarile tra governi, incessanti tentativi di addossare l’onere dei soccorsi alle autorità dei paesi da cui salpano le imbarcazioni (Libia, Tunisia, Egitto, Turchia…), arrivando a ritardi, omissioni, disimpegno delle navi in transito. Monta sempre più l’indifferenza per la sorte delle persone che affrontano il mare per cercare asilo in Europa, e i loro naufragi fanno sempre meno notizia. Macroscopica poi l’ingiunzione alle navi delle Ong, quando sono esse a intervenire, di compiere un solo salvataggio e poi di raggiungere porti lontani, come Genova o Ravenna, infliggendo una permanenza di altri giorni in mare a persone già provate e sofferenti. Poco credibili le motivazioni: il presunto sovraccarico dei porti di sbarco non si verifica, perché le persone una volta approdate vengono subito smistate verso i centri di accoglienza, magari anche riportate al sud via terra. E con il calo degli sbarchi vantato dal governo la dubbia motivazione s’indebolisce ancora di più. La vera ragione è quella di ostacolare i salvataggi, infierendo sui naufraghi, aumentando i costi per le ONG, lasciando maggiormente sguarnito il mare da pattugliare.
Certo, si possono trovare delle differenze tra i due casi per giustificare le disparità di trattamento. I naufraghi del Bayesian non avevano nessun bisogno di ricorrere a mezzi di fortuna per raggiungere le coste siciliane, non sapevano di affrontare un rischio esiziale, né tanto meno avevano intenzione di presentare una domanda di asilo, ammesso che questa sia una colpa. Non graveranno sul (precario) sistema di accoglienza e non chiederanno aiuti allo Stato italiano, a parte l’immediato soccorso.
Tuttavia la vicenda appare una parabola del dominio della cultura dello scarto di cui parla papa Francesco. Già sappiamo che la mobilità attraverso i confini è selettiva, consentita ad alcuni esseri umani e interdetta ad altri. La selezione si basa essenzialmente su tre criteri: passaporti, portafogli, professioni. Le tre P di una discriminazione planetaria. Chi possiede il passaporto giusto, oppure un portafoglio ben fornito, oppure una professione richiesta nei luoghi di destinazione (quelle sanitarie sono oggi le più ricercate), gode di diritti di mobilità forse mai così estesi. Gli altri sono consegnati a un radicamento forzato nei luoghi di origine o di transito, quali che siano le ragioni che li sollecitano a muoversi. Ora scopriamo che pure i soccorsi, la compassione e l’accoglienza dei sopravvissuti non sono uguali per tutti. Anche le più elementari regole di umanità sono applicate selettivamente, assurgendo a simbolo di un mondo drammaticamente sperequato.