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di Federico Faloppa*

La Stampa, 20 agosto 2023

Chi arriva in Italia per richiedere asilo non può essere chiamato “clandestino”, nemmeno in un manifesto politico. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza depositata il 16 agosto scorso, respingendo il ricorso presentato dalla Lega - che ora dovrà pagare anche le spese processuali - e chiudendo quindi una vicenda iniziata nel 2016. Quando, per contestare l’assegnazione di 32 richiedenti asilo a un centro di assistenza messo a disposizione da una parrocchia di Saronno (Varese), il Carroccio aveva convocato un presidio con cartelli che recitavano: “Saronno non vuole i clandestini”.

Grazie a questa sentenza della Cassazione, d’ora in poi - c’è da augurarselo - sarà più difficile abusare di questo termine, costruirvi intorno slogan e campagne elettorali, farne il perno dell’agenda politica. Ed è, questa, una gran bella notizia. Poiché finalmente si potrà tentare di ripulire il discorso pubblico e politico da un termine discriminante, usato scorrettamente, e nel tempo diventato profondamente offensivo per la dignità delle persone a cui viene rivolto e associato, e per l’intelligenza di lettori ed elettori cui, per anni, è stato fatto credere - proprio anche attraverso l’uso di clandestino - che le persone richiedenti asilo fossero illegali o irregolari. E che fenomeni complessi come quelli migratori e legati alla mobilità delle persone fossero riducibili a questioni di ordine pubblico, con le persone migranti o richiedenti asilo a far la parte del cattivo, dell’illegale, del nemico pubblico per definizione. Quando invece non sono loro o il loro status a essere illegittimi, ma l’uso improprio della parola clandestino.

Sì, perché il termine è improprio innanzitutto sul piano giuridico: definire persone richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale “clandestine” significa innanzitutto (far finta di) non conoscere né l’articolo 10 della Costituzione italiana, sul diritto di asilo, né la Convenzione internazionale sui rifugiati del 1951, né la protezione internazionale prevista dall’Unione europea, che anche il nostro Paese è tenuto a rispettare.

È improprio poi sul piano semantico: dare del clandestino a chi ha il diritto di restare nel Paese, il cui status è stato riconosciuto o è in attesa di riconoscimento, è un controsenso che offende tanto la lingua italiana - e l’intelligenza di chi quella lingua vorrebbe vederla usata correttamente, soprattutto da chi fa o orienta l’informazione - quanto il dibattito pubblico, la cui manipolazione è resa possibile anche da abusi pretestuosi come questo. Senza dimenticare che anni di uso disinvolto, inappropriato, e irresponsabile da parte delle istituzioni e dei media hanno prodotto la categoria “antropologica” del clandestino: basta muoversi, mettersi in viaggio, attraversare confini, provenire da alcuni Paesi, essere sprovvisti di un visto - anche perché i visti non vengono più concessi - per essere aprioristicamente bollati come “clandestini”. E per vedersi cucita addosso un’etichetta discriminante e umiliante. Che appiccica sui corpi delle persone quell’idea falsa, infondata, che chi migra per le ragioni più diverse o chi chiede asilo stia comunque e sempre agendo illegalmente, di nascosto, contro le regole. E per questo costituisca un pericolo da cui la comunità deve difendersi, deve respingere: come lo slogan della Lega condannato dalla sentenza vorrebbe far credere.

E qui, come giustamente ha evidenziato la Cassazione nelle motivazioni, c’è anche una questione di dignità, negata, e di violenza, agita, e spacciata per libertà di espressione. L’uso di clandestino in riferimento a richiedenti asilo o persone provviste di protezione internazionale per i giudici della Corte non può infatti rientrare nella libertà di espressione perché “il diritto alla libera manifestazione del pensiero… non può essere equivalente a, o addirittura prevalente sul rispetto della dignità personale degli individui”. Non può insomma esporre le persone a discriminazioni e discorsi d’odio, producendo un’evidente - e chiaramente voluta - ostilità verso di loro. Non può insomma sollecitare, e legittimare, reazioni di rifiuto che spesso si trasformano in violenza, non solo verbale.

Per questi motivi, non è un caso né tantomeno un capriccio che da almeno una quindicina d’anni associazioni della società civile, e poi con forza l’associazione “Carta di Roma”, chiedono ai media e a chi fa comunicazione pubblica e politica di smettere di usare la parola “clandestino” in riferimento sia ai migranti sia alle persone che arrivano in Italia per cercare protezione. E per fortuna l’appello non è sempre stato vano, se è vero che molte testate giornalistiche lo hanno finalmente bandito dalle loro redazioni, riconoscendone l’inappropriatezza e la connotazione negativa. Tuttavia, malgrado gli sforzi, e un’accresciuta consapevolezza e sensibilità da parte di molti, il termine è sempre lì, pronto a riemergere e a essere brandito come una clava capace di far danni alla lingua italiana, al dibattito pubblico, e soprattutto alle persone che ne vengono colpite. E che per questo continuano a subire la violenza non solo di un certo linguaggio - e di chi ne fa consapevolmente uso - ma anche di una società che nega i diritti e legittima, attraverso le sue ansiogene narrazioni, sistematiche discriminazioni.

La Sentenza della Corte di Cassazione non sanerà di colpo vent’anni di cattiva informazione, di slogan martellanti, e di colpevole sudditanza a questi abusi. Ma certo renderà più difficile la vita a chi vorrebbe continuare a maltrattare la lingua, le persone, e la realtà delle cose, e un po’ più di giustizia - forse, c’è da sperare - alle persone offese, al diritto e al dibattito civile nel nostro Paese.

*Professore di linguistica all’Università di Reading e coordinatore della Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio