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di Luca Mastrantonio

Corriere della Sera, 19 gennaio 2023

La poetessa britannica Warsan Shire: “Nessuno lascia casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo”. Nata in Kenya da genitori somali, nei suoi libri parla di povertà, crisi umanitaria, immigrazione: “Mio padre non ci ha protette dalla realtà, ci spiegava perché c’è la guerra, cosa vuol dire essere rifugiati”.

Anni fa lessi un testo che iniziava così: “Nessuno lascia casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo”. E poi continuava: “Fuggi verso il confine solo quando vedi che tutta la città è in fuga. Il ragazzo con cui andavi a scuola, che ti stordiva di baci dietro la vecchia fabbrica di lattine, ora impugna una pistola più grande di lui. Lasci casa solo quando è la casa a scacciarti”. L’immagine dello squalo-casa, nella mia mente, si è mangiata la storia dei rifugiati da aiutare “a casa loro”. Le parole di quel testo, Casa, sono di Warsan Shire, poetessa britannica, nata a Nairobi nel 1988 da genitori in fuga dalla Somalia sull’orlo di una guerra civile, e poi cresciuta tra mille difficoltà a Londra. Infanzia difficile, talento precoce, Warsan è stata Young Poet Laureate of London e la più giovane componente della Royal Society of Literature.

Il potere terapeutico della poesia - L’incontro che le ha cambiato la vita è in un laboratorio poetico dove scopre il potere terapeutico della poesia, trova amici e un editore per l’esordio del 2011: Teaching My Mother How To Give Birth. La fama arriva con Internet, dove le poesie diventano virali (Benedict Cumberbatch recita Casa a teatro). Beyoncé le chiede di lavorare all’album Lemonade, nel 2015, ma la prima raccolta arriva nel 2022, dal 14 gennaio in libreria per Fandango libri: Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa (trad Paola Splendore).

C’è la poesia Casa e ricorre, in altri testi, l’immagine dei denti: affilate, lucide, dolenti e magiche sono le metafore con cui Shire affonda i versi nella vita. Anni fa, invitava le madri a dare nomi difficili alle figlie, “nomi che impongano l’uso completo della lingua. Il mio nome vuole che tu mi dica la verità. Il mio nome non mi permette di credere a nessuno che non lo sappia pronunciare nel modo giusto”. Come si pronuncia Shire? Sciré. L’abbiamo chiesto a Igiaba Scego, autrice italiana di origini somale, per guadagnarci un po’ di fiducia di Shire, che ci risponde al telefono da Los Angeles.

Partiamo dalla dedica del libro, alle sue sorelle. Anche loro cresciute da una voce nella testa?

“Io avevo già un fratello, ma quando mia madre si è risposata sono arrivate loro: Samawado è nata quando avevo 12 anni, un anno dopo Suban e poi Salma. Era molto stressante per me, e impegnativo per la mia salute mentale, perché ero una bambina genitorializzata, andavo a scuola e a casa mi occupavo di loro e nessuno lo sapeva, come se fosse un segreto, ma mi hanno fatto sentire meno sola, come se avessi sempre amici, le vestivo eleganti, giocavo e ballavo con loro, mettevo la loro felicità davanti a tutto, le trattavo come figlie mie: è come se mi avessero dato la possibilità di avere una seconda infanzia, visto che la mia era stata infelice. Ora Samawado va all’università a Londra e per me è come se ci andasse mia figlia. Il libro è dedicato alle mie sorelle che sono figlie cresciute da voci nella loro testa, hanno dovuto assumersi grosse responsabilità, prendersi cura dei loro genitori, della loro casa, delle proprie vite, come tante donne”.

Lei poi è diventata madre davvero...

“Si, e c’è differenza tra sentirsi madre ed essere madre. Ma grazie a loro ho imparato a essere paziente come una madre, ma prima di diventarlo”.

Cosa è cambiato con la nascita dei suoi figli?

“Beh, intanto pensavo che avrei avuto delle figlie e sono nati due maschi. Che strano giro ha fatto il destino, quando sono nata mia nonna paterna mi aveva dedicato una poesia per celebrare che fossi femmina, in risposta alla delusione del sesso del nascituro per alcuni parenti che speravano fossi maschio. La prima riga invitava tutti a essere felici lo stesso e per bilanciare il pregiudizio dicendo che una femmina è meglio di mille maschi...”.

Poi, sorpresa, lei ha avuto due maschi...

“Temo di essere in grado di generare soltanto maschi. Se ci riprovassi, sicuramente avrei un altro maschio. Ho due maschietti: uno ha tre anni, mentre l’altro uno. Ilias e Ayup. Ho sempre pensato che avrei avuto delle femmine perché amo le bambine, sono abituata alla loro compagnia. Ma aver avuto dei maschi ha avuto benefici, mi consente di scrivere con maggior empatia nei confronti di mio padre e dei maschi in generale. Avevo commesso, all’opposto degli uomini che dicono di non aver mai pensato a cosa farsene di una donna fino al momento in cui gli è nata una figlia, lo stesso peccato. Mi limitavo a pensare al significato che assume per una donna esistere e sopravvivere in questo mondo, restando distante dalla prospettiva maschile”.

A suo padre ha dedicato molte poesie. In una dice che “Se la luna era l’Europa, mio padre era l’astronauta che morì / mentre andava sulla luna”. Poi lo immagina che vaga nello spazio e le lacrime, in assenza di gravità, non cadono...

“Sono sempre stata molto innamorata di mio padre. Un uomo molto attivo in politica, un giornalista, ha abbandonato Mogadiscio perché stava scrivendo un libro che lo aveva messo nei guai con il governo, lo avrebbero ucciso. È andato in Kenya, ma non era sicuro neanche lì, il governo di Nairobi collaborava con quello somalo... così siamo scappati in Inghilterra, poco prima che scoppiasse la guerra civile in Somalia. Ricordo che nella mia infanzia c’erano per casa a Londra le foto che lui aveva appeso, della Somalia prima e dopo la guerra. Sono cresciuta in un museo del prima e del dopo, e pensavo che tutti avessero delle foto così”.

Nei primi Anni 90, con la guerra civile in Somalia, lei era molto piccola. Che ricordi ha?

“Nella casa di Londra, mio padre accendeva il telegiornale e ci diceva “questo è quello che è successo, questo è quello che sta succedendo a casa” e diceva “questa è la tua famiglia, quelli che vedi in tv sono i tuoi connazionali, non ti dimenticare di loro”. Lui non ci ha protetto dalla realtà, ci spiegava le cose: perché il tribalismo è sbagliato, perché c’è la guerra, cosa vuol dire essere rifugiati, come andare all’home office, il panafricanismo... è stata la prima persona che mi ha detto che sono nera, e cosa vuol dire essere nera e musulmana, essere nera e inglese... Quando mio padre e mia madre divorziarono mi è rimasta impressa l’immagine di mio padre che leggeva, tutte le mattine, le sere, in salotto, e scriveva al computer. Sono profondamente legata a lui, per me è come rivivere la sua vita. Grazie a lui mi sono interessata al mio popolo di origine, la Somalia, ai rifugiati di lì, da cui poi è nata anche la poesia Casa”.

Quando l’ho letta per la prima volta era usata per una raccolta fondi per i rifugiati siriani. Le va di raccontarci com’è nata la poesia?

“Me lo ricordo come fosse ieri. Ero in Italia per un festival (di Internazionale, ndr) e andai a Roma a incontrare alcuni rifugiati somali, vicino all’ambasciata. Era tutto fatiscente, non potevo pensare che potesse essere un posto dove vivevano degli esseri umani, che stessero crescendo dei bambini. Mi dissero che il giorno prima un ragazzo era morto buttandosi da sopra l’edificio perché gravemente depresso. Era come ground zero... avevo emozioni contrastanti: se si guarda alla storia dell’Italia che ha colonizzato la Somalia, e si vede l’ambasciata in quello stato, si pensa a quanto sia ingiusta la vita, e c’erano tanti italiani accoglienti e premurosi. Ho provato rabbia, rancore e tristezza, ero inerme di fronte a un’altra versione di me, bloccata lì”.

“Tutti noi abbiamo avuto poco tempo per lasciare il Paese, che fossimo già nati o ancora nel grembo di nostra madre o anziani, o qualsiasi fosse la condizione siamo dovuti fuggire velocemente. Sono altre versioni della mia famiglia. Se uno della mia famiglia fosse arrivato in Italia, ecco come sarebbe andata. Ma sarebbe la stessa cosa se incontrassi rifugiati somali in altri Paesi... La vedo come una lotteria, è solo fortuna dove arrivi, non sei migliore o più intelligente di altri”.

Ogni volta che quella poesia viene citata, si tratta di far aprire gli occhi su una crisi umanitaria, di abitare lo sguardo dell’altro da noi...

“Fu intenso scoprire i rifugiati somali i Italia, vicino a dove vivevo, in Inghilterra. Ma ci sono tanti posti dove le persone sono in ginocchio così: la Palestina, Haiti, la Somalia, l’Iraq, la Siria, la Libia... l’Ucraina, che è tanto vicina all’Italia. Dobbiamo imparare che è tutta esperienza umana, non è solo per quelli che sono i più scuri di pelle o i poveri”.

Qual è il principale errore che si fa nel guardare alle crisi umanitarie di tipo alimentare o bellico?

“Non capire il punto di vista dell’altro, usare le parole senza che abbiano significato. Ricordo che da piccola quando mi dicevano “tornate in Africa” io pensavo “Magari! Andrei a casa domani se potessi”, ma non avevo la capacità linguistica di spiegare che avrei preferito essere a casa che lì”.

La metafora della bocca dello squalo esprime bene quanto possa essere pericoloso restare a casa, piuttosto che rischiare di affogare in mare...

“Sono tutte immagini e storie che ho ascoltato, devo dire che è stato molto catartico leggere poi quella poesia in Italia. Per me la poesia è molto terapeutica. Può aiutare chi ha vissuto situazioni simili a vivere meglio. E chi non le ha vissute, può aiutarlo a capire. Mi sono resa conto che con quella poesia c’è un intero mondo di persone che non possono capire perché non hanno vissuto certe situazioni. Ma non c’è niente di bello a lasciare indietro tutta la mia famiglia, tutti i miei amici, la mia integrità, la mia dignità, la mia cultura, la mia lingua, mio figlio, tutto quello che ho dovuto lasciare indietro perché lì, nel mio Paese, mi trattano meno di un essere umano. Chi farebbe una scelta del genere? Nessuno. Devi essere molto pieno di te stesso per pensare che altre persone vogliano lasciare tutto quello che amano per venire a casa tua. Perché uno rischia di perdere tutto andando per mare? Perché gli hanno già tolto tutto”.

In una poesia dedicata a sua madre cita in maniera ironica dei versi di Maometto. Che rapporto ha con la religione islamica?

“Sono nata in una cultura islamica, ma senza rigidità. Le zie che si prendevano cura di me, di estrazione modesta, arrivate a Londra da poco, erano ancora adolescenti. Indossavano il velo hijab integrale, dalla testa ai piedi, mentre a me intrecciavano i capelli. Negli Anni 90 c’era fobia verso l’islam, il razzismo era frequente verso donne di colore con l’hijab. Una volta a 7 anni decisi di andare a scuola con l’hijab perché volevo copiare le zie. Loro mi sconsigliarono ma io le convinsi. L’insegnante mi spinse in un angolo chiedendomi se stessi bene, come mai avessi quella roba in testa. Non sapevo che rispondere, mi piaceva indossarlo, mi sentivo bellissima, una principessa. Fui costretta a levarlo e ai parenti fu detto di impedirmi di metterlo nuovamente”.

“Mi chiesi: “Perché non posso essere manifestamente musulmana? Cosa c’è di sbagliato?”. Se mi viene detto che non posso fare qualcosa, la desidero addirittura con maggior volontà. Con il divieto dell’insegnante, l’hijab divenne una vera ossessione per me. Sviluppai un sentimento esattamente opposto a quello di altre giovani che lo odiavano poiché erano costrette dai genitori a indossarlo. Però non avevo la disciplina necessaria per indossarlo costantemente. E mi piace la moda... quindi poi l’ho tolto. Poi ho scoperto il sufismo, un islamismo filosofico e oggi sono musulmana, come mio marito, che è messicano ed era cattolico, e i miei due figli. La mia famiglia, l’amore per tenerla unita, è la mia utopia. Che in somalo si dice barwaaqo . In fondo al libro, c’è un glossario di parole somale cui tengo”.