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di Vittorio Alessandro*

La Stampa, 5 marzo 2023

La magistratura stabilirà se l’ennesima fila di bare di migranti chiami in causa responsabilità individuali, ma fin d’ora è possibile ricostruire il contesto in cui è maturata la tragedia di Cutro, quella neutra applicazione di norme, decreti interministeriali e prassi operative che ha condotto i responsabili e gli operatori del soccorso in Italia ad una rassegnata assuefazione.

Le esternazioni social sui porti chiusi del 2018 già incrinarono la certezza, prima scolpita nelle leggi e nella consuetudine, che ogni salvataggio - per definizione senza limiti operativi se non la sicurezza di chi soccorre - dovesse concludersi con il rapido sbarco dei naufraghi. La nave militare US Trenton e svariate unità mercantili, perfino le motovedette Diciotti e Gregoretti, colpevoli di aver salvato persone, furono infatti lasciate fuori dal porto in attesa delle decisioni sulla redistribuzione dei naufraghi. Per la prima volta si sovrappose al soccorso in mare l’obiettivo di contenere l’arrivo dei migranti sancito poi dal decreto “sicurezza” di Salvini (n.113 del 2019) che chiuse i porti e previde gravi sanzioni nei confronti delle navi soccorritrici non coordinate dalle autorità italiane.

Si spostava così in mare, e proprio nella fase delicata dei salvataggi, il controllo dei flussi migratori che andrebbe invece dispiegato a terra, dove può senza pericolo distinguersi tra aventi e non aventi titolo all’asilo e provvedere alle politiche di accoglienza. Anche il titolo del decreto Piantedosi n.1 del 2023, ora trasformato in legge, “Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori” si risolve, in realtà, nella restrizione dei salvataggi delle navi Ong e in nuove sanzioni a loro carico, cui il Ministero unisce, ora in ogni occasione, l’ordine di sbarco lontano dai luoghi del soccorso.

Con le nuove norme e prassi, molti eventi meritevoli di soccorso sono stati nel tempo derubricati a “evento migratorio”; i naufraghi ridotti a incauti passeggeri e il porto sicuro, la cui assegnazione è prevista dalle convenzioni sul soccorso (PoS, Place of Safety) è stato trasformato in PoD (Port of Destination), l’acronimo dell’approdo per le navi commerciali. Questo il processo che ha portato all’affondamento del caicco di Cutro, molto doloroso per la Guardia Costiera, abituata a esercitare il soccorso in ogni tempo e nei confronti di chiunque, “indipendentemente dallo status di tali persone e dalle circostanze in cui esse si sono trovate”, come statuisce la convenzione Solas (Capitolo V, regola 33).

Oggi il principio di precauzione non si applica più alle rotte dei migranti, e si considera non in pericolo la barca che sia ancora in grado di navigare e galleggiare. È significativo che nel processo di Palermo al ministro Salvini la difesa abbia esibito la foto del barcone da cui, nell’agosto del 2019, Open Arms aveva tratto in salvo 164 richiedenti asilo: poiché il barcone appare a galla, il soccorso sarebbe stato indebito. Ma un natante ormai vuoto riacquista la spinta di galleggiamento e vanno comunque considerati tutti i rischi che i suoi occupanti sopportano nella precaria navigazione.

Il caicco rovesciatosi sulle dune sabbiose di Cutro, per esempio, pur navigando speditamente, mostrava una bassa linea di galleggiamento e procedeva, su un mare in peggioramento, verso costa, dove avrebbe certamente trovato onde ancora più alte e violente. Su quella improbabile imbarcazione, i migranti erano esposti non soltanto alle insidie del mare, ma anche alla spregiudicatezza criminale degli scafisti.

La tragedia di Cutro avrebbe potuto accadere prima, colpendo una delle tante barche che arrivano “autonomamente” a Lampedusa senza che si apra un evento SAR. Perché altre vicende simili non si verifichino è necessario correggere le storture istituzionali che hanno reso il soccorso più difficile e lontano, riportando la Guardia Costiera all’originale autonomia di coordinamento e alla sua preziosa agilità organizzativa.

*Ammiraglio in congedo, già capo ufficio stampa della Guardia Costiera