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di Alessia Candito

La Repubblica, 1 gennaio 2023

A venir meno potrebbe essere anche la possibilità dei naufraghi di avere aiuto. Nella partita fra governo Meloni e ong, c’è un campo di battaglia: il tempo. E se - come la maggioranza nel suo decreto prospetta - in barba a norme e leggi internazionali sarà necessario iniziare a bordo l’istruttoria per la richiesta d’asilo, a venir meno potrebbe essere anche la possibilità dei naufraghi di avere aiuto, giustizia e asilo per quello che hanno subito. Perché a terra e in mare il tempo non ha lo stesso lo stesso valore. Le ore sembrano dilatarsi mentre si cerca un gommone in difficoltà prima che si ribalti o la Guardia costiera libica lo intercetti. I minuti si sbriciolano rapidi mentre dai rhib tocca far sì che nessuno si agiti tanto da far ribaltare lo straccio su cui troppi viaggiano. I giorni si sfilacciano inutili per obbedire a un ordine di sbarco che sembra un dispetto. Il tempo su una nave di soccorso si spoglia delle convenzioni.

A bordo, la velocità dei secondi che passano e diventano minuti, ore, giorni è proporzionale al periodo in cui puoi mettere in gioco nave, uomini e competenze per salvare vite. In acqua e sul ponte. Perché quando l’operazione di “rescue” è conclusa, i naufraghi sono a bordo, i rhib che li hanno salvati recuperati e agganciati agli argani, inizia la seconda, complicatissima parte dei salvataggi. Il cinismo istituzionale che ha plasmato le procedure della richiesta asilo lo impone. Per chi arriva dal mare, tanto più grave è il fardello di torture, stupri, abusi, violazioni che porta con sé, tanto è più facile avere asilo. Poco importa che tutti abbiano alle spalle lunghi viaggi, anni di detenzioni illegali in Libia, nessuno futuro nel Paese da cui provengono. Per tirare fuori il biglietto vincente alla lotteria dell’accoglienza in Italia, bisogna aver vissuto l’inferno e poterlo provare. Storie di umiliazioni, abusi, violenze. Storie che chiunque forse vorrebbe dimenticare. E invece ecco che, dopo aver attraversato il mare con la morte seduta accanto, i naufraghi potrebbero essere obbligati a tirare fuori tutto e in fretta pur di avere una speranza. Sempre che ci riescano.

Lo sa bene chi oggi su Ocean Viking lotta contro il tempo per individuare e segnalare le cosiddette vulnerabilità. Minori soli o con un solo genitore ad accompagnarli, disabili, malati cronici, pazienti affetti da malattie psichiatriche, uomini e donne vittime di abusi e violenze sessuali. Adesso si tratta di una procedura funzionale ad accelerare le procedure di accoglienza e avviare le vittime in contesti più consoni. “Al momento abbiamo individuato trentacinque minori non accompagnati, un paio di casi di tratta, molte violenze sessuali, un uomo affetto da seri disturbi psichici da trauma”, spiega Sara, responsabile a bordo della Croce Rossa. Ma non basta farli emergere o avere il sospetto. Servono dettagli, storie e non è facile rompere la riservatezza di chi i traumi più intimi cerca di tenerli per sé.

Ecco perché dal momento del salvataggio, Ahmed e Mosleh, i mediatori culturali sulla Ocean Viking lavorano ininterrottamente, e chi della crew è in grado di mettere in gioco le proprie competenze linguistiche pure. Perché ci vuole tempo per costruire un rapporto di fiducia, ancora di più per stendere un tessuto di confidenza, vincere la riluttanza. “Anche se va a loro beneficio, non li puoi certo obbligare”, spiega Sara. Ma la burocrazia non conosce sfumature, disegna solo procedure. Ogni vulnerabilità è una speranza in più di avere assistenza e asilo, ogni persona è un caso. Dietro però ci sono storie scritte sulla carne di chi le ha vissute.

C’è Moussa che oggi ha diciassette anni, ma è diventato adulto lungo il cammino iniziato “quando avevo forse 13 anni, o forse meno” in Gambia. C’è una donna che si dondola sull’improvvisata altalena sul ponte e ride, ma alle spalle - ha finito per raccontare - ha tre anni di Libia, dove è stata sequestrata, picchiata, violentata, abusata più e più volte. “Kalaboush, kalaboush”, dice con negli occhi l’orrore, mentre un’altra ragazza lì vicino scorre forsennatamente le foto sul suo telefono. “Vuoi sapere cosa sia la Libia? Eccola”, dice e mostra il suo volto tumefatto, un occhio fatto nero da un pugno, il segno rosso di una ferita sulla guancia. C’è Adil che si è perso nel mondo di mostri in cui i suoi carcerieri in Libia lo hanno precipitato, trema come una foglia per qualsiasi rumore improvviso e riesce a dormire, mangiare, camminare solo se c’è l’uomo che lo ha preso sotto la sua ala protettrice. Non c’è nessun legame familiare fra loro, non erano amici, “semplicemente non potevo abbandonarlo così”, spiega Rakim.

Perché lo raccontassero ci è voluto tempo. Così come hanno tardato giorni le donne a mettersi in fila per raccontare la loro storia di violenza e abusi. Non tutte, è il sospetto, ci sono riuscite. Ci vorrà tempo. E un luogo consono, protetto, intimo che non può essere una nave, dove l’intimità non esiste e gli spazi necessariamente condivisi. Ci vorranno psicologi esperti perché in ogni parola c’è un mondo e per entraci bisogna saper cercare la strada giusta. Oggi tocca a chi gestisce il servizio a terra, provare a vincere giorno dopo giorno la naturale riservatezza di chi ha visto l’inferno. Un naturale pudore che, se questo lungo processo potesse avvenire solo in nave, diventerebbe solo spietata ghigliottina.