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di Luigi Manconi

La Stampa, 2 ottobre 2023

Interrogato sulla possibilità dei richiedenti asilo di versare 5.000 euro per evitare l’internamento in un centro di detenzione, Matteo Salvini ha risposto così: “Hanno scarpe, telefonino e orologino”. Come a dire: possono ben permettersi di pagare quella ingente somma come cauzione per la loro libertà. È lo stesso Salvini che, qualche tempo fa, aveva definito “croceristi” i naufraghi soccorsi in mare. Nel mentre, l’Italia conduce un’aspra controversia con il governo tedesco, accusato di finanziare le Ong; e irride la nitida spiegazione fornita dalla ministra dell’Interno tedesca Nancy Faeser: “Sono volontari che salvano vite umane”. Si deve registrare, con ciò, l’irruzione della malvagità in politica? E, se fosse così, saremmo davanti a una svolta?

Intanto va detto che una politica migratoria equa ed efficace dovrebbe affidarsi, in primo luogo, ai principi dell’utilitarismo, ovvero alla reciprocità degli interessi di tutti i soggetti coinvolti: autoctoni e nuovi arrivati. Infatti, l’immigrazione nei Paesi occidentali discende da cause economiche, finanziarie, demografiche, sociali, ambientali e militari: e richiede dunque strategie fondate su politiche lungimiranti, capaci di accogliere e non di respingere, di includere e non di segregare, di ampliare il sistema di cittadinanza e non di restringerlo.

A partire dal presupposto, scientificamente fondato, che i grandi flussi migratori possono contribuire allo sviluppo dei sistemi sociali e alla crescita della ricchezza delle nazioni. Pertanto, la politica migratoria deve basarsi sulla faticosa impresa di conciliare l’interesse degli Stati e quello degli individui nel quadro del diritto internazionale e dei valori universali. Ma quando le politiche utilitaristiche non funzionano o tardano a funzionare il discorso umanitario mostra la sua fragilità. E diventa bersaglio di una politica che si presenta come pragmatica, insofferente verso i principi, ridotti a mera retorica, e ostile nei confronti di emozioni e sentimenti. Ma siamo sicuri che quello in corso sia un conflitto tra “cattivisti” e “buonisti”?

Penso proprio di no: ritengo piuttosto che stia emergendo una vera e propria ideologia anti-universalistica e anti-umanistica. Facciamo un passo indietro, fino alla riunione del Consiglio dei Ministri, tenutasi a Cutro pochi giorni dopo il naufragio della notte fra il 25 e il 26 febbraio scorso, e alla conferenza stampa della presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

A chi le chiedeva perché non avesse incontrato i famigliari dei naufraghi, Meloni rispondeva: “Oggi ho finito adesso, dopodiché io… ci vado volentieri”. E non ci andò. Quel giorno, l’intero evento governativo ignorò accuratamente i corpi dei morti, lo strazio delle bare bianche dei bambini, il dolore dei parenti. Non vi fu alcun elemento di religiosità ispirata a una confessione o al culto dei morti, nessuna cerimonia funebre, nessun rito civile e nessuna coscienza pubblica della tragedia. Piuttosto, una politica totalmente secolarizzata che parlava solo attraverso provvedimenti di natura prevalentemente repressiva. E, soprattutto, nessun riferimento al sacro, come dovrebbe esser proprio di ogni circostanza che richiama la morte di esseri umani. Ecco, questo mi sembra il dato cruciale: la diffusione, specie all’interno della cultura di destra, di una sorta di neo-nichilismo, che riduce tutto alle dimensioni della politica e che riduce la politica alle dimensioni dell’interesse più prossimo, circoscritto, contingente.

Ma l’immigrazione non può essere piegata a tali anguste misure e, dunque, alle conseguenti decisioni di governo: respingimenti, espulsioni, detenzione. Di conseguenza, l’evento governativo di Cutro è risultato un fatto irreligioso e sconsacrato proprio perché totalmente incapace di considerare il fattore umano e la sua radice più profonda. Ciò che in Occidente, nell’età contemporanea, chiamiamo sacro rimanda all’idea di persona che lo sviluppo della civiltà ha elaborato e che si fonda sul concetto di dignità. È tale concetto a costituire il tratto unico e irripetibile dell’individuo e a rappresentare il valore essenziale delle relazioni umane e il fondamento stesso del legame sociale. È esattamente questo che fa della vita di ogni persona un bene intangibile e della sua morte un evento di crisi. E una lacerazione non rimarginabile. È esattamente questo che rende concreto, concretissimo, l’antico ammonimento: la morte di un solo individuo rappresenta la perdita dell’intera umanità. L’irreligiosità di quella iniziativa del Governo a Cutro, l’assenza di ogni elemento di sacralità, il mancato tributo ai defunti e l’indifferenza verso i sopravvissuti sono altrettante spie di quell’atteggiamento mentale: i migranti non hanno la dignità di persone o comunque non hanno una dignità pari alla nostra. Vengono degradati, cioè, a cose: “scarpe, telefonino e orologino”.

Sono un allarme sociale e un’emergenza criminale, una minaccia e una invasione, un fattore di disordine e una insidia. La loro qualità di esseri umani titolari di una irriducibile dignità - e per questo, come si diceva, sacri - viene cancellata. Eppure, una diversa e più degna e rispettosa considerazione dei migranti sarebbe compatibile anche con una politica migratoria conservatrice. Perché aggiungervi, dunque, questo elemento di malvagità? E tanto ostentato sprezzo? Perché, credo, è congeniale a una operazione culturale e ideologica che mira ad abbassare il livello di senso morale della società italiana. Se di questo si tratta, la posta in gioco è davvero alta.