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di Giovanni Salvi*

Corriere della Sera, 19 marzo 2023

Non bastano l’aumento delle pene per il traffico di esseri umani e la perseguibilità anche quando il reato è commesso al di fuori del territorio dello Stato. Il decreto-legge del 10 marzo prevede un nuovo delitto per traffico di migranti, con un severo aumento delle pene per condotte già oggi punite; se ne prevede la perseguibilità anche quando commesso al di fuori del territorio dello Stato.La giurisdizione italiana in acque internazionali contro i trafficanti di migranti è stata in passato esercitata sulla base delle norme esistenti, ad esempio da Palermo e Milano; ciò ha portato alla punizione di organizzatori e manovalanza, anche per violenze consumate fuori del territorio nazionale. Pioniera in questo percorso fu la Procura di Catania, quando dovette occuparsi in tragica successione di gravissimi naufragi, tra cui quello del 15 aprile 2015, nel quale morirono circa 800 persone. Il gruppo di lavoro, costituito dopo il naufragio del 10 agosto 2013 sulle spiagge catanesi, molto simile alla tragedia di Cutro, utilizzò le Convenzioni sul soccorso in mare e sulla disciplina dell’Alto Mare, unitamente ai Protocolli contro il traffico di migranti e di esseri umani della Convenzione di Palermo sul crimine organizzato. La Corte di cassazione, con un orientamento ormai consolidato, ritenne fondata quella costruzione giuridica e fu quindi possibile sequestrare le navi-madre e arrestare i trafficanti (dunque non solo gli scafisti) anche a 200 miglia dalla costa italiana. L’intervento normativo recepisce ed estende questa interpretazione ma non risolve i molti problemi che si posero.

Affermare la giurisdizione non è sufficiente. Qualunque Stato può farlo. Il problema è esercitarla effettivamente, in uno spazio condiviso con la sovranità di altri Stati e sottoposto al diritto pubblico internazionale e alle Convenzioni che lo disciplinano. Quando fu chiesta l’estradizione dei capi di una pericolosa organizzazione, l’Egitto la rifiutò perché non aveva mai dato esecuzione alla Convenzione sul crimine organizzato transnazionale. I nostri sforzi sembravano vani, ma non lo furono del tutto.

L’emozione causata dalle centinaia di vittime del naufragio del 15 aprile 2015 e del processo che ne seguì portò la Procura e il Tribunale di Catania a rappresentare all’Assemblea degli Stati parte della Convezione di Palermo le difficoltà incontrate. Ciò contribuì in maniera decisiva all’approvazione del Meccanismo di Revisione, che giaceva da anni tra interminabili discussioni nelle sedi delle Nazioni Unite e che è volto a verificare l’effettivo rispetto degli obblighi che gli Stati hanno assunto firmando la Convenzione.

Aumentare le pene serve davvero a poco, se quelle pur severe esistenti non possono essere applicate nei confronti degli organizzatori del traffico, che operano nei Paesi di partenza e di transito dei flussi. Se poi si finisce per punire con pene draconiane il solo scafista, la punizione “esemplare” finisce per essere contraria a principi di giustizia.

Un secondo problema che si dovette affrontare fu quello delle dichiarazioni dei sopravvissuti. Essi erano testimoni e dunque pienamente legittimati a rendere deposizione davanti al giudice, oppure indagati di reato collegato, perché responsabili della contravvenzione prevista dall’art. 10 bis del Testo Unico sull’immigrazione? La questione aveva riflessi processuali significativi. Il pool giunse alla conclusione che la contravvenzione in questione non si applicava ai casi di soccorso al di fuori delle acque territoriali.

Dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera rappresentai le conseguenze che potevano derivare quando i migranti fossero giunti autonomamente all’interno delle acque territoriali: il reato contravvenzionale sarebbe stato consumato e dunque la nostra costruzione non avrebbe potuto reggere. In tali casi i sopravvissuti avrebbero assunto la veste di indagati. Conseguenza paradossale, per un reato punito con un’ammenda, la cui forza di intimidazione è pari allo zero. La situazione è rimasta quella del 2015.

Durante l’operazione Mare Nostrum il soccorso in mare era condotto direttamente dalla Guardia Costiera e dalla Marina Militare. Esse coordinavano anche i mercantili, impegnati nel soccorso. Al tempo stesso, questa azione, volta al soccorso, permetteva di raccogliere importanti informazioni e seguire sin da molto lontano le grandi imbarcazioni, consentendo poi alla Guardia di Finanza di intervenire. Perseguire con determinazione la punizione dei trafficanti è fondamentale, ma ciò può essere addirittura meglio realizzato se contemporaneamente si assolve al dovere del soccorso in mare.

Questo dovere deve essere condiviso: il caicco naufragato a Cutro navigò per giorni nelle acque greche senza alcun intervento, né di polizia né di soccorso, mentre Malta continua ad essere inattiva. Frontex non coinvolge di fatto navi militari di altri Paesi, nel canale di Sicilia e nelle acque del Mediterraneo centrale. È dunque necessaria una politica coordinata, di soccorso e di prevenzione, che porti alla condivisione degli oneri e che promuova, anche sotto egida delle Nazioni Unite, accordi seri ed efficaci di cooperazione di polizia e giudiziaria con i Paesi di origine e di transito.

*Ex Procuratore Generale presso la Corte di cassazione