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di Gad Lerner

Il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2024

Nella città di Cesare Beccaria, padre dell’illuminismo lombardo e antesignano della civiltà giuridica, 160 anni dopo la pubblicazione di “Dei delitti e delle pene”, ancora dei ragazzi sono stati torturati in una sede preposta alla loro custodia e rieducazione. Anzi, a ben vedere sono due a Milano le istituzioni per giovani reclusi trasformate in luoghi di tortura: il carcere minorile che porta con disonore il nome dello stesso Beccaria; e il Centro di Permanenza per i Rimpatri di via Corelli, commissariato dal dicembre scorso. Due buchi neri, in cui precipitano dei giovanissimi, che Milano preferisce ignorare. Due luoghi della vergogna ai bordi di una città che intanto festeggia gli afflussi record del Salone del mobile e del turismo ricco. La statua di Beccaria eretta là dove un tempo sorgeva la casa del boia, non può arrossire. Gli uomini invece sì, se hanno coscienza.

Mi sarei aspettato una parola dal sindaco di Milano, Beppe Sala, ma non è ancora venuta. Grande imbarazzo o assuefazione all’inciviltà? Di certo le autorità cittadine, in prima fila il prefetto e il questore, sapevano già dello scandalo di via Corelli quando è arrivata la tegola del Beccaria. A proposito del carcere minorile, dovrebbe essere sufficiente riportare le parole con cui la gip Stefania Donadeo ha convalidato 13 arresti e 8 sospensioni dal servizio di altrettanti agenti della polizia penitenziaria: “Un sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali, umiliazioni e pestaggi di gruppo”. I reati ipotizzati sono: tortura, lesioni, maltrattamenti, falso, tentata violenza sessuale. Le vittime avevano taciuto per timore di ritorsioni.

È mortificante raccogliere le confidenze di vari operatori sociali, fra cui professionisti d’indubbio valore, che di fronte ai dettagliati resoconti della Procura ora si chiedono: “Come abbiamo fatto a non capire che lì dentro succedeva l’inferno?”. Ancora peggio, forse, la desolazione di don Gino Rigoldi - cappellano per mezzo secolo - che ammette di non essersi accorto di nulla; e aggiunge, davvero troppo caritatevole, di non voler gettare la croce sugli agenti, spesso di prima nomina, inesperti, spaventati, anch’essi per lo più giovani.

Ci misuriamo con un fallimento morale favorito dai continui cambi di direzione, dai conflitti fra operatori, dalla riluttanza con cui venivano trattati i progetti di giustizia riparativa indispensabili se si vuole abbattere la recidiva. Ma soprattutto dall’idea sempre più diffusa secondo cui l’unico modo di trattare dei giovani violenti, pieni di rabbia, ribelli, sarebbe quello di “incapacitarli”. Cioè sottometterli con la forza. Da notare che oggi il numero di minori reclusi al Beccaria (in realtà vi scontano la pena anche ragazzi che hanno superato i 18 anni) è raddoppiato rispetto al 2022, l’epoca dei fatti. Allora erano fra i 30 e 40, adesso più di 70. Possibile che per tenere a bada un numero così modesto di ragazzi senz’altro difficili, difficilissimi, si ritenesse necessario il ricorso al terrore?

Se al Beccaria è l’omertà ad averla fatta da padrona, per certi versi ancor più clamoroso è il caso del Cpr di via Corelli, luogo di detenzione amministrativa per stranieri privi di regolare permesso di soggiorno. Cibo maleodorante, avariato, scaduto. Mancanza di medicinali e di supporto psicologico e psichiatrico. Le domande di asilo politico tenute nel cassetto e mai inoltrate. Di tutto ciò la prefettura di Milano era al corrente quando rinnovò il contratto milionario con l’ente gestore, la Martinina srl, solo poche settimane prima che la Procura sottoponesse il Cpr a sequestro d’urgenza per frode in pubblica fornitura e turbativa d’asta.

Con il commissariamento in via Corelli ben poco è cambiato. La quarantina di immigrati rinchiusi non riescono a spiegarsi neanche perché sono lì. Episodi di violenza e soprattutto di autolesionismo sono la regola: farsi del male per essere ricoverati all’ospedale Niguarda viene considerato l’unico metodo per tentare di ottenere il rilascio. Ma intanto in via Corelli è facile impazzire. “Il Registro degli eventi critici non viene più aggiornato perché tanto sono troppi”, racconta il consigliere regionale Luca Paladini. “Per capirci, solo nel mese di marzo l’ambulanza è stata chiamata 60 volte”.

Faccio la somma: mettendo insieme i due buchi neri di Milano riservati ai giovanissimi non si arriva alle 130 persone. Un numero esiguo. Se di loro gliene importasse a qualcuno, se Milano fosse la città civile che si vanta di essere, basterebbe un minimo di attenzione delle istituzioni per rendere civili questi luoghi di sofferenza. E invece viviamo la più classica ambivalenza italiana: grande successo di pubblico e commozione per la serie tv Mare fuori, ambientata in un carcere minorile napoletano che vuole rassomigliare a Nisida. Costa niente immedesimarsi nei tormentosi destini dei giovani protagonisti. Per poi, subito dopo, applaudire i partiti di destra che dichiarano l’intenzione di abbassare da 14 a 12 anni la soglia di imputabilità dei minorenni. Spiega il criminologo Adolfo Ceretti: “I reati gravi commessi da minori erano già nell’ordine di 20 mila all’anno, ma noi riuscivamo a contenere il numero dei reclusi negli Istituti a poco più di un centinaio. Ora hanno rapidamente superato quota 500. Si confrontano visioni opposte della pena e delle sue finalità. I giovani violenti ci trovano impreparati e fanno paura”. Così cresce anche il numero di chi risponde con la tortura.