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di Maurizio Porro

Corriere della Sera, 8 gennaio 2024

Il regista è il figlio dell’esperta di cucina Silvia Polleri, che coordina la brigata composta da otto detenuti. “I clienti? A volte sono curiosi in modo morboso, altre volte capiscono e i ragazzi si aprono al dialogo”. Il 26 ottobre 2015 è stata una data storica per il carcere di Bollate. Quel giorno si è aperto il ristorante interno, il primo al mondo, con una settantina di posti a tavola e dehors. È gestito da otto detenuti che ordinano le vivande, ragionano sui piatti, cucinano e servono a tavola, escluso il maître dei vini perché con l’alcol non possono averci a che fare. È stato subito un successo, grazie anche alla visione comune dei direttori dell’istituto negli anni. Lista di attesa nelle prenotazioni e curiosità internazionali, compreso un giornalista del New York Times.

“Benvenuti in galera” è il titolo del documentario firmato da Michele Rho - studi alla Paolo Grassi e alla Columbia di New York - e girato nei tre anni tormentati dal Covid, seguendo persone che lavorano ogni giorno in cucina, anche per i pasti mensa dei detenuti e poi, finito il lavoro (retribuito) tornano in cella. Il doc, prodotto da WeRock, visto in anteprima a Filmmaker, sarà in tenitura da giovedì 11 gennaio (alle 21) all’Arlecchino di via San Pietro all’Orto e racconta un pezzo di vita fuori dagli schemi, un prison movie che non assomiglia a nessun altro.

“Ho voluto raccontare - dice il regista - le vite di questi ragazzi nel carcere considerato modello, dove ci sono detenuti di ogni specie ma dove sono esclusi i reati di mafia. Il titolo “Benvenuti in galera” vuole annunciare l’intento di abbattere ogni diffidenza, perché i carcerati sono persone come noi, uomini che si stanno riprendendo le loro vite anche attraverso l’esperienza del ristorante; questi per me sono Davide, Said, Jonut, Chester, Domingo, Pavel. I clienti? A volte sono curiosi in modo morboso, altre volte capiscono che il lavoro significa redenzione, speranza e futuro: così i ragazzi si aprono al dialogo”.

Il ristorante ha da sempre la benedizione professionale di Silvia Polleri, esperta di cucina, madre del regista, che ha preso in mano la situazione con cordialità, formando una brigata notevole, con l’intervento di uno chef che ha lavorato con Gualtiero Marchesi. Dice Rho: “Spesso il turn over dei lavoratori è determinato dai processi, per cui il ristorante diventa un ponte tra il carcere e il mondo esterno, costringe a sostituzioni e cambi, sono le piccole incognite di un progetto sposato sia dai detenuti sia dai clienti, tanto che hanno fatto la stessa esperienza in un carcere in Colombia, quindi la storia continua”.

Primo comandamento per l’autore, “entrare in colloquio coi ragazzi senza retorica, condividere le loro storie al di là delle loro colpe, senza entrare in cella ché non è permesso, ma osservando la fatica e la costanza di un lavoro quotidiano tra i fornelli, supervisionato da mia madre. Tutto ciò è una lente per esplorare il mondo del carcere e capire le reazioni dei ragazzi quando cucinano, pensano ai menù o vanno a fare la spesa all’ipermercato. Il lavoro è la chiave di tutto, in un film che ha una cifra agrodolce come sono le storie delle persone, senza “giocare” coi drammi personali, ma guardando a come rendere sopportabile la carcerazione. Per questo vorrei presentare il film anche in altri istituti di pena, così come nei locali che già lo richiedono, in giro per l’Italia e soprattutto penso di proiettarlo nelle scuole, come momento umano e didattico: i film si allevano come figli”.

Questo “figlio” mostra un luogo inusuale, brani di sorrisi inaspettati, dibattiti sul pesce spada, racconti di altri soggiorni in carceri di massima sicurezza, dialoghi non scontati e con l’impronta della verità, all’ombra di un ristorante decorato alle pareti con poster di film adatti (“Il miglio verde”, “Fuga da Alcatraz”, “Le ali della libertà”, “Fuga per la vittoria”). La morale è che cibo e convivialità (e fatica, sudore) sono jolly validi ovunque e la lasagna mette insieme tutto il mondo. Perché in bianco e nero? “Perché sono i colori del cinema, sintomo di eleganza, sono quelli che per me aiutano a restituire il senso della dignità delle persone, non distraggono il vero con luci e colori”.