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di Brunella Giovara

La Repubblica, 24 ottobre 2023

“Così i ragazzi capiscono la vita dei reclusi”. L’ateneo propone un’esperienza simile a come vivono i detenuti di San Vittore: “Un’esperienza forte e nessuno è preparato”. Provate dunque voi, a stare un po’ dentro questa cella da 2 per 4 metri tutto compreso, e si intende il cesso, altra parola non c’è. “Esperienza immersiva”, dura 5 minuti ma bastano per capire qualcosa. Tipo: in quattro qui non ci si sta. Eppure, ci si sta eccome, nelle carceri italiane che scoppiano di detenuti. Come, lo sanno solo loro, che quando uno si alza gli altri devono stare in branda, e se proprio vuole allargare le braccia - di fronte alla miseria in cui vive - deve calcolare bene il dove e il quando (sul lato lungo, sempre che nel frattempo uno degli altri non si sia alzato).

E dopo 5 minuti qui dentro, a leggere le scritte “Mamma perdonami, e pagami l’avvocato”, e “chi galera non prova/libertà non apprezza”, si torna tristemente alla libertà, e al bar dove si può bere un caffè espresso, al BiM, che sta per “Bicocca incontra Milano”, spazio e cuore culturale dell’università. “Quando i visitatori escono, si sentono come sollevati, e hanno molte domande da farci”, spiega Olivia Serio, laureanda di 23 anni in Psicologia e tutor di alcuni detenuti, e anche accompagnatrice nella finta cella, ricostruita con fedeltà dal laboratorio di falegnameria del carcere di Bollate. Ma è la copia delle peggiori, cioè San Vittore. Casa circondariale, cioè per chi è in attesa di giudizio, e spazi ottocenteschi, un gran passaggio di detenuti, stipati come polli in allevamento. Si fanno i miracoli per evitare il peggio, che pure talvolta succede. Le risse, le crisi di disperazione, i suicidi.

Seduta sulla branda (al piano inferiore del castello, e quindi con la testa storta perché non c’è spazio) c’è la professoressa Maria Elena Magrin, docente di Psicologia giuridica, coordinatrice del polo penitenziario della Bicocca, e nel decimo anniversario “abbiamo voluto proporre questa esperienza. Non solo agli studenti “liberi”, ma a tutta la cittadinanza”. Chi vuole, può presentarsi in viale dell’Innovazione 3 e provare, accompagnato, a farsi chiudere dentro (ci si prenota su bim-milano.com/eventi/extrema-ratio). “In realtà, la cella è aperta. Cioè, ha una maniglia interna, che nella realtà non esiste”, spiega Olivia Serio. “Gli ex detenuti notano subito la fondamentale differenza. In carcere la porta è chiusa dall’esterno. La maniglia significa libertà”. È questa la reclusione, cioè la costrizione. “Il carcere ha un fine pena per quasi tutti, quindi a un certo punto si esce, e lì si apre il tema delle re-inclusione, di quello che succede dopo”, spiega Magrin. E della paura: di chi è stato dentro, e ha paura di uscire, e di chi non c’è mai stato e ha paura - o repulsione, o disgusto - di chi c’è stato.

La cella è in prestito, nel senso che appartiene alla Caritas Ambrosiana, costruita per il progetto “Extrema Ratio”. Ma la roba è vera. I brutti materassi blu - duri -, l’armadietto minuscolo, il tavolino con sgabello. Il cesso-cucina, “tutti domandano perché nella turca c’è infilata una bottiglia…”, dice Olivia. Molti non hanno mai visto un gabinetto alla turca in vita loro, e meno male. “Serve a evitare la risalita degli scarafaggi”. Ingegnoso, viene da dire, così come i piccoli scaffali costruiti con i pacchetti delle sigarette.

È l’inventiva dei poveri, che sono la maggioranza del popolo carcerario. Ma non essendoci uno spazio cucina, il fornelletto da campeggio sta accanto al lavandino e a un metro dalla turca, e lì sopra si fa da mangiare. E cosa vuole sapere, il visitatore? “Se i detenuti hanno la divisa arancione, o a righe. Si stupiscono delle immagini sacre, domandano se in carcere si riscopre la fede, il che è abbastanza vero”. Magrin: “È un’esperienza semplice, ma forte, e apre dei pensieri. La gente non sa niente del carcere”.

Perciò è utile provare a lasciare gli oggetti vietati (il telefono), o pericolosi (i lacci delle scarpe, la cintura), i soldi, i gioielli. Entrare (in quattro), la porta si chiude, per sedersi c’è solo lo sgabello, o le brande dove si sta con la testa storta, ingobbiti, scomodi, rassegnati. Il neon acceso, manca solo l’odore tipico della galera, il misto di cucina e gabinetto che resta indimenticabile. E tutto è abbastanza sporco, e soprattutto squallido. È tutto troppo piccolo, si sbattono le ginocchia nello spigolo del castello, o nell’armadietto, o nel muro. I nuovi giunti - come noi - si riempiono di lividi, poi imparano.

Nonostante tutto questo - a cui andrebbe aggiunto il freddo d’inverno e il caldo d’estate - molti detenuti si iscrivono all’università, talvolta per ottenere qualche beneficio, spesso per reale interesse. Non solo la Bicocca, che è una università giovane, ma quasi tutte le università hanno i loro studenti residenti in un carcere. Alla Bicocca ne sono passati tanti, in questi dieci anni, e attualmente ci sono 80 iscritti, che seguono per forza da remoto, “ma sostengono veri esami, e conquistano una vera laurea”, senza sconti.