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di Micol De Pas

linkiesta.it, 18 novembre 2023

Uno sguardo sulla situazione di alcune carceri grazie a un’installazione immersiva che simula la degenza dietro le sbarre. In quei luoghi senza spazio, senza privacy e spesso senza umanità, il tempo scorre lentissimo. Quartiere Bicocca, Milano. Un edificio molto recente - come tutti qui - bianco, che corre pulito e ordinato lungo i marciapiedi di viale dell’Innovazione. Si entra qui, al BiM, uno spazio innovativo in cerca di una riqualificazione del quartiere che a trent’anni dalla sua creazione si riorganizza per rispondere alle nuove esigenze di chi lo vive e lo abita. Ma questa è un’altra storia. O quasi, perché BiM è un luogo ibrido che ospita anche l’arte e la cultura. Questa volta l’appuntamento è con “Extrema Ratio”, un’installazione di Caritas Ambrosiana curata da C41, nell’ambito degli incontri messi a punto dal Polo universitario penitenziario di Milano Bicocca per raccontare i suoi dieci anni di attività (dal 16 di ottobre fino al 19 novembre).

Quello che mi porta al BiM è un’esperienza immersiva. Ammetto di essere un pochino distratta mentre percorro il corridoio a piano terra che ospita una piccola mostra di fotografie prima di giungere alla mia destinazione, l’installazione. Mi soffermo su uno scatto, molto bello, opera dei detenuti che hanno partecipato a un laboratorio di fotografia proposto dall’organizzazione di volontariato sociale Ri-Scatti, nel carcere di Bollate insieme alla polizia penitenziaria.

Un lavoro interessante di cui qui sono esposte solo tre foto, parte di una grande mostra, “Ri-scatti. Per me si va tra la perduta gente”, che si è tenuta negli spazi dell’ateneo. Sul muro opposto, tre videointerviste firmate C41 a Ileana Montagnini di Caritas Ambrosiana, Amedeo Francesco Novelli dell’ODV Ri-Scatti e Gaia Pollastrini dell’Università Milano-Bicocca. Guardo il cellulare, l’orologio, penso agli impegni successivi.

Sul fondo del corridoio una tutor mi accoglie, insieme a un altro partecipante, per dare inizio all’esperienza. Nulla di tecnologico, anzi: sto per entrare in una cella. O meglio, nella riproduzione esatta per misure e arredi di una cella della casa circondariale di San Vittore a Milano. La tutor ha in mano alcuni sacchetti che ci distribuisce spiegandoci l’uso che dobbiamo farne. La sua voce e i suoi ordini interrompono i miei pensieri: “Lacci delle scarpe e cinture sono pericolosi soprattutto per il detenuto stesso. Il tasso di suicidi in entrata è altissimo”, ci spiega, “come è altissimo alla fine di una detenzione lunga. Soldi e oggetti di valore possono essere strumenti di corruzione; dunque, pericolosi e il cellulare consentirebbe di avere rapporti con l’esterno, vietati”, continua.

Consegno tutto, in un improvviso risveglio dalla mia distrazione (e benedicendo la scelta mattutina di indossare un paio di stivaletti senza stringhe). “Da questo momento in poi non fate domande” ci dice con gentilezza ferma la tutor. “La cella in cui state per entrare è la riproduzione esatta di una cella di San Vittore, gli arredi sono un prestito della casa circondariale: tutto quello che vedete è dunque reale”. Ci fa entrare e chiude la porta. Non sappiamo quanto tempo staremo lì dentro. Siamo solo in due e fatichiamo a dividerci lo spazio. Il bagno non ha la porta, una bottiglia di plastica copre lo scarico del wc alla turca, un lavandino piccolissimo è incastrato dentro una mensola su cui è appoggiato anche il fornelletto da campeggio: si può cucinare. Due letti a castello, un tavolo con il televisore e un mobiletto (mezzo rotto) completano l’arredamento, occupando quasi interamente i metri quadrati disponibili.

Un sacco di domande mi passano per la testa, l’occhio è catturato da piccole mensole realizzate con i pacchetti delle sigarette e appese al muro, insieme a qualche ritaglio di giornale. Tra un piano e l’altro del letto non si può stare seduti: l’altezza non è sufficiente. La porta della cella, “il blindo”, è chiusa da un po’. Il tempo è già sospeso. Desolazione, ansia, claustrofobia, impotenza, paura, anche. Guardo l’altra persona, cerco un po’ di fiducia. I suoi occhi chiari me la rimandano: la nostra è una simulazione. Eppure, la sensazione fisica di claustrofobia e di attesa è così reale, fa pensare a chi si trova davvero in una cella, per la prima volta, per le prime ore, con altre persone, sconosciuti destinati a diventare intimi compagni di vita, magari per anni… nessuna finzione. La porta si apre. Sono passati solo cinque minuti, infiniti.

Si può parlare ora e le domande ottengono risposte. In quella cella possono stare un massimo di sei persone. Misura otto metri quadrati, quando arriva il sesto detenuto viene aggiunto un piano al letto a castello (che diventa a tre posti), ma occorre decidere se la finestra resterà aperta o chiusa. Una volta per tutte: il letto poi la bloccherà e non si potrà cambiare idea. La bottiglia nel wc serve a limitare la circolazione degli scarafaggi. Il fornelletto da campeggio consente di cucinare: i detenuti possono scegliere se mangiare il cibo della mensa interna o acquistare dei prodotti da preparare da sé. Non si usano soldi, naturalmente, ma il detenuto ha un conto gestito dal carcere con cui pagare la spesa settimanale (in base a una lista dei prodotti scelti da lui). Se la cella è piena si cucina in bagno, perché non c’è altro spazio. A San Vittore, dunque in quella cella, si può rimanere fino a cinque anni (anche se poi la scadenza non è così precisa, perché ci sono molte variabili che possono determinare condizioni detentive diverse) e ogni giorno si può uscire per un massimo di quattro ore (su ventiquattro).

Non in tutte le carceri la vita è questa. A Bollate, esempio modello in Lombardia, è diverso: è consentita una maggiore mobilità tra la cella e le altre aree del carcere e in maniera più fluida; molte celle sono singole e i detenuti possono personalizzarle realizzando degli arredi nel laboratorio di falegnameria o scegliendo di dipingerle con colori. Laboratori e attività di studio sono disponibili per tutti, rendendo quel tempo un pochino meno sospeso. E in effetti la maggior parte delle persone ristrette che scelgono di studiare è ospite di Bollate o di Opera.

Il polo penitenziario dell’Università è nato proprio dalla necessità di permettere a un gruppo di detenuti studenti di completare la propria formazione. Era il 2006 e in circa sei anni si è arrivati a un accordo formale che si è concretizzato con una convenzione tra Prap (Provveditorato Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria) e ateneo. Dal 2013, anno della sua nascita, il progetto è cresciuto, e attualmente l’università lavora con ottanta studenti, sei istituti che comprendono due case di reclusione e quattro circondariali, dodici dipartimenti e ventisei corsi di laurea.

L’idea è di fare dell’università anche un luogo di riflessione e di cultura dove ragionare intorno alla detenzione, come spiega Maria Elena Magrin, docente di psicologia alla Bicocca e giudice onorario al tribunale dei minori, coordinatrice del Polo. “Certamente le condizioni di vita interne al carcere sono determinanti per avviare una progettualità in un tempo che è vuoto, sospeso, da trasformare in qualcosa che possa accompagnare le persone ristrette a una nuova vita”. Argomento enorme, che emerge senza mezzi termini dall’esperienza nell’installazione al BiM e che fa parte di un dibattito forse ancora più grande: “Portare il mondo nel carcere e il carcere fuori sono gli obiettivi. Così, parliamo di stelle tra le sue mura e allestiamo una vera cella per accogliere chi sta fuori” conclude Magrin.