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di Manuela Messina

La Repubblica, 2 luglio 2022

Si chiama “Uscita di sicurezza” il progetto di Cascina Cuccagna e Comunità il Gabbiano per dare un lavoro esterno alle donne. Ecco le loro storie. Anche gli oggetti più comuni di una cucina possono disorientare, se hai passato gli ultimi anni in carcere.

I bicchieri, per esempio, perché negli istituti penitenziari vetro e specchi sono banditi. Figuriamoci i coltelli, consentiti solo di plastica. E poi il rumore. Le voci si mischiano, talvolta diventano più squillanti per dare ordini, per rispondere ai comandi, per scherzare, imprecare e litigare. È un saliscendi di tensione, perché tutto deve funzionare come in un’orchestra, e ogni giorno a pranzo e a cena c’è la “prima” dello spettacolo.

Può anche capitare di sentirsi riprendere per un gesto maldestro, e di piangere per lo stress. Ma non c’è mai nulla di personale. È solo lavoro. “Qualche lacrima è scappata, si diventa più sensibili dopo tanti anni” ammette Z., 53 anni, che tutte le mattine esce dal carcere di Bollate per lavorare al bistrot da Base, in via Tortona. “Non sapevo fare nulla all’inizio, qualcuna l’ho combinata in cucina. Ma i colleghi sono persone speciali, sono stati pazienti e non hanno avuto pregiudizi, che era ciò che temevo di più”.

Z. è ristretta da dodici anni ed è arrivata qui con altre 8 donne a luglio dello scorso anno per partecipare a “Uscita di sicurezza”, progetto della Cascina Cuccagna nato da un’idea della Comunità Il Gabbiano e altre associazioni. La referente Luisa Della Morte spiega che ha “l’obiettivo di creare uno spazio di lavoro, socializzazione, sostegno psicologico e formazione di donne detenute ed in espiazione penale esterna”. Si è partiti con dei tirocini nelle cucine di “un posto a Base” e “un posto a Milano”, e alla fine in quattro sono state assunte con contratti a tempo determinato. “I nostri lavoratori sono stati molto attenti e aperti alle nuove arrivate - spiega Giacomo Faina di Cascina Cuccagna - sono dell’idea che se le coinvolgi, se fai capire che c’è un obiettivo in più nel lavoro, tutto diventa più facile”.

Valentina Rocca è stata il punto di riferimento delle detenute nel loro inserimento. “Abbiamo avuto catering da 200, 300 persone e loro sono state all’altezza del ruolo. L’organizzazione è tutto”. Un’altra donna che ha partecipato al progetto S., 44 anni, racconta: “Abbiamo preparato il pranzo ai nostri figli per anni, ma tagliare un cetriolo a casa e farlo qui non è lo stesso”. Stesso discorso per le patate. “Tagliarle a cubetti? È difficilissimo.

Devono essere uguali al millimetro, altrimenti devi rifare da capo”. Per lei la detenzione è durata solo un anno, e ora è in affidamento in prova. Deve rispettare delle prescrizioni, ma per il resto è libera. Francesca Gittardi, cuoca, si è occupata della formazione: “Erano molto interessate, entusiaste. Il risultato è stato bellissimo”.

“All’inizio abbiamo imparato l’arte bianca, quella della panificazione. Per cinque giorni solo teoria, abbiamo studiato le farine e i lieviti sulle slide. Poi siamo passati alla pratica, alle focacce e ai dolci. Ho imparato un mestiere e sono molto felice di questo. Se non ti fanno lavorare che cosa diventi una volta uscito? Resti una delinquente”.

Z., che alla fine della giornata deve rientrare in carcere, racconta di non avere mai lavorato prima: “L’ho fatto una volta dentro e adesso ho questa possibilità. Sono cambiata e spero che l’affidamento in prova arrivi presto. Finalmente vedo una prospettiva”. I colleghi? “Sono fantastici, hanno avuto tantissima pazienza. Gli chef Francesco e Reno sono persone speciali. Ci hanno insegnato tutto da zero e oggi qualcosa l’abbiamo imparato”