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di Sara De Carli

vita.it, 24 ottobre 2023

Da una parte i matti, dall’altra i cattivi: sembrava una scommessa ardita quella che per due anni ha portato i pazienti del Centro Diurno Il Camaleonte di Fondazione Sacra Famiglia dentro il carcere di Opera. Invece hanno vinto la tenerezza e la verità delle relazioni. Un progetto unico, raccontato con uno spettacolo ad alto impatto emotivo. Una cosa sola c’è da dire, basta e avanza. Una persona - scontata la sua pena - è uscita dal carcere dopo, pur di concludere il progetto e mantenere fede alle relazioni avviate lì: “Prima finisco il percorso, poi esco. Non posso sparire da un giorno all’altro”, ha detto. Ardito, improbabile, unico nel suo genere, surreale: anzi, meraviglioso. Sono questi gli aggettivi che descrivono il progetto “Emozioni all’Opera”, che per due anni ha coinvolto una ventina di detenuti del carcere di Opera e cinque pazienti del Camaleonte, il centro diurno psichiatrico di Fondazione Sacra Famiglia. “Ci differenzia la pena, ma ci accomuna la sofferenza”, hanno detto i partecipanti-attori nell’originale e intenso spettacolo con cui hanno raccontato il progetto.

Sul palco gli ospiti di Sacra Famiglia (“i pazienti”), detenuti (ma loro si definiscono “ospiti permanenti di Opera”), educatori, familiari, volontari, tutti con un il loro ruolo scritto in grande su un cartello appeso al collo: “Ci portiamo tutti addosso delle etichette mica da ridere”, dicono.

La stessa solitudine - Tutto è cominciato nel 2018, racconta Giovanna Musco, presidente di In Opera, l’associazione nata in carcere dagli stessi detenuti. “Dopo tanti incontri sulla giustizia riparativa mi hanno chiesto di poter fare qualcosa per gli altri, per andare oltre le parole. L’idea è stata quella di mettere insieme due situazioni che sono simili per il bisogno che le caratterizza: il carcere è solitudine e tempo vuoto, lo stesso il mondo degli anziani e delle Rsa. Abbiamo pensato di unirle, per far sì che il tempo vuoto di entrambe diventasse pieno”. Il direttore di Opera, Silvio Di Gregorio, approva: “Mi disse soltanto “proceda”, come fa spesso lui”, ricorda Giovanna.

La proposta è ardita e infatti non trova subito risposta: “C’era comprensibilmente un certo timore nel far entrare degli anziani con le loro fragilità in un carcere, in relazione con i suoi ospiti”. (“Pericoloso!” esclama intanto uno dei partecipanti al progetto, con il cartello che sottolinea le emozioni in gioco). L’incontro che cambia le cose è quello con Barbara Migliavacca, all’epoca responsabile della residenza sanitaria assistenziale per disabili San Carlo e San Benedetto di Sacra Famiglia: è lei che intuisce la potenza e le potenzialità del progetto. Si lancia e così parte il progetto “Legami all’Opera”. A convincerla - ricorda - fu “la consapevolezza del bisogno primario di relazioni umane, che tutti abbiamo”.

In Sacra Famiglia ben presto “telefoniamo al Walter” diventa una richiesta abituale, anche se “al Walter”, in carcere, non si può telefonare: “Le preoccupazioni si sono sciolte dinanzi all’importanza delle relazioni che accadevano tra detenuti e ospiti”, racconta Barbara. “In modo inatteso, quello spazio era diventato per tutti uno spazio di riconoscimento, un luogo in cui sentirsi finalmente desiderato da qualcuno”.

Il rilancio - Nel 2020, bruscamente, il Covid interrompe tutto: le parole per ricordare le emozioni di quel momento sono “desiderio” e “bisogno”. L’esperienza però è già troppo importante per rinunciarvi. Sacra Famiglia, quando le condizioni permettono una riapertura stabile, decide di proporre l’esperienza di Opera alle persone con malattia mentale o disagio psichico che a Cesano Boscone frequentano il Centro diurno Il Camaleonte. Laboratori espressivi e ricreativi, gestione delle autonomie, atelier, sport.

Il lavoro dell’équipe qui - spiega Emilio Castiglioni, psichiatra del Camaleonte - punta sul concetto di “recovery”, codificato negli States nel 2005: “Al centro del percorso riabilitativo non c’è il disturbo mentale, ma la persona, che diventa promotore della propria salute con azioni partecipate. L’obiettivo è che la persona, nonostante i sintomi della malattia, riesce a vivere una vita soddisfacente, con un’idea di progettualità e di apertura al futuro, quella sensazione di dire “il peggio è passato”, afferma Castiglioni. Su venti persone che frequentano il Centro, sei vengono coinvolte nel progetto. Per i familiari dare l’assenso non è una cosa scontata, raccontano Cinzia, cognata di Roberto e Giuseppe, fratello di Fabrizio: la parola-chiave qui è “fiducia”.

“Legami all’Opera” così diventa “Emozioni all’Opera”. In comune questa volta c’è “l’essere prigionieri di spazi angusti, della propria mente o di una cella”, dice lo psichiatra. “Perché le emozioni? Perché abbiamo pensato di portare in carcere qualcosa che eravamo bravi a fare, quella attività terapeutica sulle emozioni che già facevamo al Centro”, ricorda Melissa Cozza, psicoterapeuta del Camaleonte. “Attorno al paziente psichiatrico c’è l’idea che le emozioni possano diventare pericolose, noi invece ci lavoriamo tantissimo, ovviamente risignificando le emozioni prima, durante e dopo il momento in cui vengono vissute. Una delle persone che avevamo coinvolto, Massimo, a un certo punto ha interrotto il percorso perché l’esperienza non lo faceva stare bene: questa cosa dimostra quanto sia stato in grado di “maneggiare” le proprie emozioni”.

Mettersi a nudo - Il gruppetto di Sacra Famiglia entra ogni settimana a Opera: lato detenuti, gli incontri vanno sempre in overbooking tante sono le richieste di partecipare. Lato Sacra Famiglia, c’è chi non ha saltato mai un incontro. Poteva essere “i matti” e “i cattivi”, e invece. Giocano a carte, chiacchierano, fanno laboratori sulle emozioni, costruiscono insieme dei presepi utilizzando gli scafi dei barchini con cui i migranti attraversano il Mar Mediterraneo. “Pensavo che sarebbe stato solo “un pezzetto” del mio percorso di giustizia riparativa, invece è stato un incontro”, ammette Alessandro. Sincerità e amicizia sono le parole che vengono portate sul palco. “Ci differenzia la pena, ma ci accomuna la sofferenza”, aggiunge.

Roberto racconta che questa esperienza lo ha “aiutato a pensare a ciò che ha fatto, a capire che ci sono cose più importanti dei soldi. Mi sta aiutando e spero che la mia presenza aiuti qualcuno”. Sergio dei nuovi amici dice che “sono persone distinte, gentili ed educate”. La psicoterapeuta del Camaleonte, che ha dato ordine alle emozioni vissute, afferma che “l’esperienza ha dato ai ragazzi un maggior senso di autoefficacia e ce li ha fatti conoscere sotto altri aspetti, mettendo in luce risorse che non immaginavamo”.

Maria Luisa Manzi, educatrice a Opera, sottolinea la straordinarietà di aver potuto “vivere emozioni positive e costruttive in un luogo in cui di solito, invece, si vivono prevalentemente emozioni negative, sia per i detenuti per gli operatori” e l’aver di fatto “superato reciprocamente uno stigma, quello del detenuto e quello del malato psichico. Questa esperienza ha abbattuto un muro”.

Monsignor Bruno Marinoni, da pochi mesi presidente di Fondazione Sacra Famiglia, mette l’accento sull’autenticità delle relazioni che - paradossalmente - diventano più sincere là dove potrebbero sembrare meno libere e spontanee: “accade perché qui le relazioni toccano la carne delle persone”. È l’ispettore Daniele Talanti a trovare l’immagine più bella, semplice ma vera: “In carcere a volte devi mostrarti diverso da quello che sei, più duro. In questa esperienza, lo avete visto dalle foto, c’è stata tanta tenerezza e accoglienza. Le persone si sono messe a nudo e vi garantisco che in carcere non è facile farlo”. Come ha detto don Gino Rigoldi, storico cappellano dell’istituto penale per minorenni Beccaria di Milano, “è la relazione che cura e fa crescere, il rialzarsi e lo scoprirsi come persone belle, capaci di esserci per gli altri”.