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di Giuseppe Guastella

Corriere della Sera, 26 luglio 2023

C’è sempre chi storce il naso quando un detenuto esce per un permesso premio o una misura alternativa al carcere. Scatta l’indignazione se torna a delinquere. Avviene, più di rado, anche quando al contrario dopo anni di carcere non ottiene alcun beneficio. Giovanna Di Rosa presiede il Tribunale di sorveglianza di Milano che con 24 giudici si occupa di 6.709 detenuti. Talvolta ha dovuto risolvere questioni drammatiche.

Siete troppo buoni o troppo severi?

“Né l’uno né l’altro, perché le nostre decisioni seguono il criterio della scientificità partendo dal principio costituzionale secondo il quale il fine della pena è di rieducare il condannato per reinserirlo nella società evitando che esca dal carcere così come c’era entrato. Compatibilmente con le risorse che abbiamo, per decidere cerchiamo di temperare la valutazione giuridica con quella sulla personalità del recluso”.

Accade che detenuti appena usciti vengono rinchiusi di nuovo perché non si comportano bene...

“Purtroppo ci vorrebbe la sfera di cristallo. È chiaro che il nostro lavoro si scontra con l’imprevedibilità dei fattori umani che sono oggettivizzabili, per loro natura, solo fino a un certo punto. Per entrare nella mente e giudicare sulla prevedibilità della condotta di una persona una volta fuori, abbiamo a disposizione solo degli indici predittivi. La legge ci chiede di affermare che il condannato non risulta socialmente pericoloso facendo una prognosi che parte dal reato e si basa sull’osservazione di come si è comportato in carcere, grazie ai contributi degli esperti, tra cui educatori, psicologi e criminologi, e su altri elementi, come le notizie fornite dalle forze dell’ordine sulla sua vita”.

Dice che non si può escludere che non righi dritto?

“I dati dicono che i detenuti che non rispettano le regole durante i permessi premio sono una percentuale assolutamente minima, non arriva all’uno per cento. Pochissimi casi che, però, talvolta diventano eclatanti per la notorietà del singolo. La preoccupazione più consistente riguarda la recidiva, cioè che si commettano reati, ma per quanto riguarda le misure alternative (come lavoro esterno, affidamento in prova, ndr) la percentuale di revoca è appena attorno al 3% l’anno”.

Salvatore Parolisi uscendo in permesso ha parlato delle vittime dei suoi reati, ha detto di essere innocente e di essere stato condannato a soli 20 anni perché non c’erano prove. Gli avete revocato i permessi. Perché?

“Non entro nel particolare. Ricordo che la legge non impone l’ammissione della colpevolezza, quindi è possibile che anche chi nega di aver commesso il reato sia ammesso ai benefici. Ciò che si valuta è il riconoscimento del valore della legalità come strumento prioritario e unico per la convivenza civile, che ci sia stata l’interiorizzazione dei valori della convivenza civile, la piena partecipazione al percorso trattamentale e l’attenzione alla vittima del reato. Si pensi che per decidere sulla liberazione condizionale la legge impone di accertare che c’è stato il sicuro ravvedimento. Persino in questo caso la Cassazione dice che non occorre l’ammissione del reato ma che abbia avuto successo il progetto rieducativo che si è svolto in carcere e che sia cessata la pericolosità sociale”.

Perché si reagisce negativamente quando un condannato ottiene un beneficio?

“Perché non si comprende, forse perché non lo si conosce, il lavoro che c’è dietro, l’impegno che ha dovuto mettere per compiere un percorso frutto di un tormento. A volte, purtroppo, le decisioni della magistratura di sorveglianza sono rappresentate come casuali e immotivate. Non è così, ci sono giudici che hanno svolto un lavoro lungo e ponderato con grande attenzione a tutto, a partire dalla sentenza e dalle parti lese”.

Tra poco lei lascerà la presidenza per la scadenza degli 8 anni previsti dalla legge. I momenti più difficili?

“Il periodo iniziale della pandemia. C’è stato l’incendio dei nostri uffici, che ha creato enormi difficoltà ma siamo riusciti a non fermare l’attività reinventando un ufficio al piano terra del palazzo e ricostruendo il precedente. E le rivolte a San Vittore ed Opera”.

Interi reparti incendiati, lei trattò con i carcerati. Che ricordi le restano?

“La sensazione di rivolte organizzate da facinorosi violenti, di una follia imperversante che non permetteva loro di ascoltare ragioni. Volevano essere liberati e basta. La paura della pandemia all’esterno dentro si amplificava a dismisura”.