di Monica Serra
La Stampa, 28 febbraio 2023
Bambini e genitori accampati per giorni, tensione e scontri con la polizia. Juan e Luis giocano con un ombrello nel fango. Hanno 12 anni a testa, i pantaloni della tuta inzuppati. Sono le 23, il termometro segna 3 gradi, piove dal mattino e l’umidità non dà tregua a chi è fermo ad aspettare da ore. O anche da giorni, accampato in una tenda di fortuna. La piccola Carmen, 2 anni, è crollata sulla spalla del papà, che la protegge con una coperta a pois. Già in testa alla fila c’è Ana, che di anni ne ha 5, e gli occhi esausti di chi è grande abbastanza per capire che - se va bene - dovrà stare in piedi al gelo, per tutta la notte. Nel parco, c’è chi si scalda con un falò di rami secchi. Una coppia si abbraccia sui cartoni distesi sulla terra bagnata. Un anziano fissa il vuoto e si aggrappa alle stampelle per cercare le forze su una panchina.
Via Cagni è la Lampedusa di Milano. L’ultima frontiera dell’Italia. In questa strada anonima della periferia nord, dove non c’è traccia delle luci del Duomo o dei party della Fashion week, centinaia di persone sognano un varco alla disperata ricerca di un futuro. Chi arriva coi barchini dal mare o con un volo che gli è costato tutto quel che poteva vendere in Sri Lanka o in Sudamerica, e sfugge a ogni censimento, ai circuiti istituzionali dei Cas, per chiedere asilo o protezione internazionale deve passare da qui. Dallo spazio stretto che si apre tra le transenne e i poliziotti in tenuta antisommossa dopo la mezzanotte della domenica. Ogni domenica.
Questa notte sono in pochi: 400, 500 al massimo, divisi per etnia. In genere sono molti di più, anche il doppio. Solo 120 alla settimana, però, ce la fanno a vincere questa lotteria. A entrare nella caserma Annarumma, sede del reparto mobile, che la Questura ha trasformato in una succursale dell’ufficio immigrazione. Per rispondere, nell’unico modo consentito dalla legge, a una richiesta incessante e invisibile agli occhi della politica che pontifica nei talk show.
Qui, dalle sette del mattino del lunedì, si fa solo la prima identificazione per prendere un appuntamento. Che in un paio di mesi porterà a ottenere lo status di richiedente asilo, valido fino alla pronuncia della commissione territoriale, e poi all’eventuale ricorso. Anche se dovesse andare male, significa vivere in Italia da regolari per almeno due o tre anni.
Una via crucis di pochi metri che diventano infiniti, necessaria a chi scappa dalla guerra, da persecuzioni politiche e religiose. Alcuni sono costretti a giocare la carta dell’omosessualità condannata in tanti Paesi. Non tutti lo sono davvero, ma non c’è altro modo per tenere accesa la speranza.
Dinesh, srilankese di 26 anni, in Italia da 10, tiene il posto a un amico: “Era un oppositore perseguitato dal governo, per scappare ha venduto ogni cosa: il ristorante, il tuk-tuk. Ora si spacca la schiena come lavapiatti in un locale, finisce a mezzanotte e si precipita qui”.
Pochi passi più avanti c’è Maria, peruviana di 50 anni che abbraccia la nipote: “Non è giusto, siamo qui da mercoledì, la niña non mangia da colazione. Siamo accampati in quella tenda da cinque notti per prendere il posto. Come bestie. Che poi non è detto serva a qualcosa, ci proviamo da un mese ma non si sa mai se ci faranno passare”. Un altro modo per prenotare l’appuntamento non esiste: le regole del ministero sono chiare perché prima, con le prenotazioni online, accadeva di tutto.
C’era chi arrivava sui barconi a Porto Empedocle col ticket in mano, che aveva pagato agli sfruttatori centinaia di euro. I truffatori si agitano anche qui, pronti a vendere documenti falsi e dichiarazioni di ospitalità, in mezzo a questa massa stanca e arrabbiata che spinge per entrare.
A mezzanotte e venti si apre un buco tra i blindati davanti al gruppo degli egiziani. Sono in tanti. Si accalcano e battono forte sugli scudi dei poliziotti, per saltare la fila, per provare a sfondare. Ci sono grida, spintoni. Un volontario dell’associazione Naga, che dà una mano coi colleghi della comunità di Sant’Egidio, urla: “Qui c’è una famiglia con un bambino”. “Venite”. E quel piccoletto avvolto in una coperta tra le braccia del papà, si perde ingoiato dalla folla che gli fa spazio.
Ce l’ha fatta, è nel corridoio al di là delle transenne con altri 120. Ma per l’arrivo dei mediatori e l’installazione delle tensostrutture dentro i muri alti della caserma, c’è da aspettare l’alba. Alcuni agenti fanno una colletta per offrire una bevanda calda. Altri, fuori, provano a tranquillizzare la folla impazzita. I modi sono bruschi e duri: “È chiuso, andate via. Next week”. Dall’altro lato georgiani, bengalesi e pakistani si mescolano ai sudamericani. Nella calca c’è una ragazza di 13 anni con un giubbotto rosso. È spaventata. In lacrime, si rassegna e si allontana, seguita dalla famiglia. Schiacciato dalla folla, il piccolo Carlos, 8 anni, perde la mano del papà Jorge, meno di 30. Urla il suo nome, lo ritrova in fretta: “Viviamo a Legnano, il prossimo treno è alle 5, non so neanche dove andare ora”. È triste Carlos, seduto su uno sgabello al bordo della strada: “E domani ho anche la scuola”, si preoccupa, sfoggiando un italiano perfetto imparato in meno di tre mesi, che fa brillare gli occhi al padre: “È il mio orgoglio, il mio cuore. Questo è l’unico modo per provare, davvero, a dargli un futuro”.