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di Elisabetta Andreis

Corriere della Sera, 14 gennaio 2023

A 20 giorni dalla fuga dei 7 ragazzi, trasferito il 50 per cento dei detenuti. Il tamtam mediatico seguito alla clamorosa evasione di sette minori dall’Istituto penale per minorenni Beccaria si è già spento in un assordante silenzio. Eppure dentro le mura delle carceri in ogni parte d’Italia i ragazzi dimostrano continuamente un forte disagio per le condizioni detentive: nel giro di poche settimane ci sono stati il ferimento degli agenti di polizia penitenziaria a Bologna, le aggressioni e gli incendi a Nisida, Catania, Palermo e Treviso, l’evasione di un diciassettenne egiziano a Torino e i disordini a Casal di Marmo scoppiati per il ritardo nella somministrazione di ansiolitici di cui in molti casi, pur sotto prescrizione medica, si fa un uso ormai abituale.

Al Beccaria, come risposta alle fughe e alle rappresaglie che sono seguite, ci sono stati trasferimenti in istituti lontani o in carceri per adulti. Da quaranta, gli ospiti sono diventati una ventina. “Almeno metà di loro potrebbe essere trattata a livello comunitario. Ma sul territorio non c’è una rete di strutture forte e flessibile al punto da sostenere il dovere di rieducare senza sbarre quei ragazzi difficili” - riflette il cappellano don Claudio Burgio che anche venerdì mattina era all’istituto Galilei di via Paravia, a San Siro, a parlare con centinaia di studenti. È il vaso di Pandora, un gatto che si morde la coda.

Sempre più spesso il carcere, soluzione che dovrebbe essere riservata solo a chi è giudicato ancora responsabile di pericolosità sociale, diventa deriva quasi scontata per adolescenti che non trovano posto altrove e restano a vagabondare consolidando i rapporti con la criminalità sul territorio. “Ma il carcere non è la soluzione. Stigmatizza, fa sentire i ragazzi dei delinquenti senza appello, e il risultato non arriva: si danno poche possibilità di sperimentare identità diverse”.

Al Beccaria le tensioni erano molto alte, nei giorni precedenti alla breve fuga dei sette e ai disordini che sono seguiti. I giovani provocano spesso le autorità con strafottenza, stretti in un istituto chiuso alle osmosi con adolescenti esterni e ostile alla pratica regolare degli sport di gruppo in spazi come la palestra e il campo da calcio. D’altro canto gli agenti, pochi e inesperti perché in continuo turn over, cercano di mantenere il controllo ma talvolta utilizzano maniere forti che possono alimentare altre rappresaglie, com’è successo di recente. “Questo tipo di carcere non riesce ad essere comunità, luogo di rinascita e benessere con cui i ragazzi interagiscono e si confrontano. È come una famiglia in cui si è rotto il patto di fiducia, la relazione educativa tra adulti e figli” aggiunge don Burgio.

In questo meccanismo la criminalità di ritorno e il tasso di recidiva aumentano. I dati della Procura del Tribunale per i minorenni di Milano parlano chiaro: nell’ambito del Civile le segnalazioni arrivate dai servizi sociali, dalle scuole, dalle forze di polizia e dagli enti sanitari - su situazioni di grave disagio che non erano mai emerse - sono cresciute del 37 per cento. Sotto il profilo penale, gli autori di reato sono aumentati del 24 per cento rispetto all’anno scorso. Sette reati su dieci sono compiuti in gruppo, soprattutto da baby gang composte a loro volta da ragazzi di origine straniera per il 70 per cento.

Il 14 per cento di loro risultano senza fissa dimora: minori stranieri non accompagnati di cui ci si accorge solo nel momento in cui delinquono e vengono intercettati dalle forze dell’ordine. Evidenze da considerare, a maggior ragione se si pensa al flusso record di minori non accompagnati che arriva a Milano, talvolta in fuga da comunità dove erano stati inseriti in altre zone d’Italia. Enorme lo sforzo messo in campo per collocarli nelle strutture di un sistema che è già saturo: nel 2022 ci sono stati 1.174 ricorsi, con una crescita rispetto all’anno scorso del 28 per cento.