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di Fulvio Fulvi

Avvenire, 10 febbraio 2024

Il fratello di Emanuela, moglie del generale Dalla Chiesa uccisa dalla mafia nel 1982, si impegna a redimere gli ergastolani: così ha superato le logiche dell’odio contro gli autori di quella strage. Ma un carcerato che se si è macchiato di orrendi delitti, può davvero “guarire”? Può comprendere il male fatto a se stesso e agli altri e diventare un’altra persona, capace di provare “il piacere della responsabilità”? “Non è un’utopia, cambiare è possibile, per i mafiosi, come lo è stato per me”.

A dirlo è Paolo Setti Carraro che dopo la morte della sorella Emanuela nella strage di via Carini a Palermo, il 3 settembre del 1982 - l’agguato dove vennero uccisi il marito, generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’epoca prefetto del capoluogo regionale, e l’agente di scorta Domenico Russo - ha intrapreso un faticoso cammino personale di redenzione dalla rabbia, dal rancore e dal senso di vendetta nei confronti degli assassini della sorella. Chirurgo per 48 anni, prima al Policlinico di Milano e poi all’estero, per tredici anni nelle zone di guerra, Setti Carraro dal 2016 fa il volontario nelle carceri di media e massima sicurezza, incontra tutte le settimane i detenuti attorno a un tavolo, insieme agli amici del “Gruppo della trasgressione”. È impegnato a Opera e nelle Case circondariali di Milano San Vittore e di Parma, nel recupero umano e sociale di chi vorrebbe uscire dalle gabbie della propria coscienza, prima ancora che dal carcere.

Si può dire che dal ricucire i corpi lei è passato a ricucire le anime e le coscienze. Che cosa l’ha spinto a farlo?

La mia è una sfida alla morte, come quando curavo i malati di tumore che, allora, erano ritenuti inguaribili...

Lei aiuta anche ergastolani che hanno storie criminali come quelle degli assassini di sua sorella: significa che li ha perdonati?

Se il perdono mi venisse chiesto lo accoglierei volentieri. Li incontrerei però da solo, in un ambiente privato, come esseri umani e sullo stesso piano, senza gradini tra noi, in condizioni di parità. Il criminale che si pente davvero ha un valore enorme, è come se avesse rimosso un macigno dalla sua coscienza. E dalla nostra. Ma è sempre un processo lungo e doloroso. Poche volte è stato possibile ma si è trattato sempre di esperienze bellissime. È un’occasione di crescita per tutti, anche per noi.

In cosa consiste, secondo la sua esperienza, il vero pentimento di un criminale?

Nell’avere consapevolezza e responsabilità del danno causato alle persone “offese” e alle loro famiglie, a sè e alla società intera. E non deve essere un alibi, un modo per ottenere uno sconto di pena. Stando con i detenuti comunque ho imparato che si ha sempre a che fare con la povertà, non solo economica. È come se facessi opera di maieutica: aiuto, insieme ad altri, a far venire fuori ciò che di buono esiste nell’animo umano. Contribuiamo a recuperare la dignità in quelle persone che qualcuno vorrebbe invece chiuse per sempre in cella, con la chiave buttata via...

Ma, in concreto, come è possibile questo?

Anche gli ergastolani, i criminali più incalliti, quando si accorgono di essere guardati in modo umano, capiscono di valere molto d più delle loro originarie limitazioni. Così cominciano a svegliarsi le loro coscienze spente, addormentate. E noi ci implichiamo sempre con chi decide di intraprendere un percorso di questo tipo. Magari perché ha visto i risultati su un suo compagno di detenzione...

Un altro “salto” difficile, per chi vuole liberarsi dal macigno che pesa sulla sua coscienza, è quello di non apparire un traditore di fronte agli altri...

Si tratta di tradire la propria carne, qualcosa di simile a quello che è accaduto a me. Ma è un passaggio necessario per il vero cambiamento di sè. Non stiamo parlando però di “pentitismo” ma di concrete evoluzioni del pensiero e del comportamento, che pure non vengono accettate dal sistema criminale dal quale si proviene.

Quante persone sono riuscite a redimersi con questa “terapia umana”?

Ho visto ergastolani uscire dal carcere dopo 15 anni con un orizzonte mutato. Si tratta di dare loro quei riferimenti che hanno perso o non hanno più accettato. Questo significa curare l’anima. Riconoscere, e non dimenticare più, dignità e dolore. Come è stato per me. È questione di tempo.

Aumentano suicidi, aggressioni e rivolte: com’è la condizione dei detenuti nelle carceri italiane?

Si toglie loro, oltre che la libertà personale, l’affettività e la possibilità di esercitare una genitorialità responsabile. Ma dietro le sbarre si dovrebbe stare come... in un albergo a tre stelle. So che questa è una provocazione ma voglio dire che non si dovrebbero aggiungere altri dolori alla sofferenza dello stare dentro perché si deve scontare una pena.

Sulla strage di via Carini, a distanza di 41 anni, restano ancora molti lati oscuri, è vero?

Zone d’ombra esistono anche sulle stragi degli anni ‘60, ci sono stati depistaggi e coperture, come nel caso di Messina Denaro. C’è sempre una parte della società che trama contro la verità per non farla emergere.