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di Massimiliano Mingoia

Il Giorno, 7 dicembre 2023

“Dedico questa medaglia all’agente De Rosa rimasto ferito tre mesi fa. È un riconoscimento al lavoro di tutta la squadra. La struttura è sempre sovraffollata, aumentano i disturbi mentali”. “Nel carcere troviamo una rappresentazione di ciò che la città produce di negativo: uno spaccato di marginalità, una concentrazione di problemi psichiatrici (in aumento), dipendenze, fragilità. Ma per uscire, in tutti i sensi, per far sì che le persone dietro le sbarre tornino alla città, c’è bisogno del contributo della città stessa.

Ecco, l’Ambrogino d’Oro per me vuol dire questo: un riconoscimento per il lavoro svolto finora, che è un lavoro collettivo, e un invito a tutti a partecipare a questo processo, perché il carcere non è “altro” rispetto a Milano ma ne è parte”. Lo sottolinea Giacinto Siciliano, da 6 anni direttore della Casa circondariale San Vittore, che domani riceverà l’Ambrogino d’oro (su proposta del consigliere di Fdi Enrico Marcora).

Che cosa rappresenta per lei questa medaglia?

“A titolo personale è un riconoscimento importante. Io sono originario di Lecce ma vivo a Milano da 30 anni e sicuramente mi fa molto piacere ottenere la massima onorificenza. Soprattutto, però, è un riconoscimento per il lavoro non solo mio ma di un’intera squadra: San Vittore è una realtà complessa, è come un quartiere; una macchina che funziona grazie a centinaia di persone: circa 500 agenti di polizia penitenziaria, una quarantina di dipendenti amministrativi più i professionisti del comparto sanitario e decine di volontari di associazioni. L’Ambrogino è per tutti coloro che lavorano, invisibili. Tra i tanti cito Carmine De Rosa, l’agente di 28 anni rimasto gravemente ferito mentre tentava di fermare un detenuto in fuga dall’ospedale San Paolo lo scorso 21 settembre. Dedico l’Ambrogino a lui, che incarna lo spirito di tutto il gruppo”.

Difficile gestire una struttura dove la capienza viene abbondantemente superata?

“È complicato. Cerchiamo di fare del nostro meglio e ci riusciamo collaborando e creando un clima familiare. Al momento abbiamo 1.030 uomini e 80 donne in un luogo con capienza massima di 850 persone. In carcere arriva generalmente chi si trova ai margini, chi è in difficoltà. E i numeri alti certamente rendono più difficile seguire tutti”.

Quali sono le difficoltà principali?

“Ultimamente sono aumentate le persone con problemi psichiatrici. I servizi mirati non mancano ma, se i numeri sono alti, la qualità dell’intervento chiaramente diminuisce. Abbiamo 450 detenuti con problemi di dipendenza certificata e 250 ragazzi sotto i 25 anni in carcere. E poi la maggioranza (700) è di origine straniera, cosa che rende più difficile comunicare e pianificare un percorso. C’è anche da mettere in conto che la permanenza a San Vittore è piuttosto breve: la media è di 3, 4 mesi al massimo, perché gestiamo prevalentemente imputati in attesa di giudizio, che dopo il processo, se condannati, vengono trasferiti altrove. La maggior parte è legata alla criminalità spicciola”.

Qual è il suo desiderio, per San Vittore?

“Che sia sempre più parte di Milano. È il carcere storico, l’unico in centro città, e questo è importante perché i cittadini passando lo vedono ed è più facile anche creare un rapporto, un ponte tra dentro e fuori (io sono stato anche direttore della Casa circondariale di Opera, ed era molto più difficile instaurare un legame con il territorio). San Vittore favorisce la partecipazione: apriamo le porte durante eventi come Bookcity e per la Prima diffusa della Scala. Lo faremo anche quest’anno. Tra l’altro, San Vittore ha aperto la strada, 12 anni fa, a quella che poi è diventata una tradizione estesa in più quartieri”.