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di Chiara Evangelista

Il Giorno, 6 gennaio 2024

“Mitiga” è stata fondata da Vincenzo Dicuonzo, a Bollate. “Così ci sosteniamo a vicenda”. L’obiettivo è il reinserimento considerando le richieste delle aziende e le inclinazioni dei singoli. Se si dovesse descrivere in poche parole, utilizzerebbe l’espressione “diario umano” per le storie che ha incontrato e ascoltato in oltre dieci anni di carcere. Vincenzo Dicuonzo, 43 anni, ora è a Bollate, in regime di articolo 21, cioè può uscire la mattina dall’istituto penitenziario e deve ritornarci la sera. Le esperienze che ha raccolto negli anni di detenzione lo hanno portato a fondare “Mitiga”, un’impresa sociale gestita da detenuti per aiutare i detenuti stessi a trovare lavoro.

Com’è nato questo progetto?

“Tutto è iniziato dalla mia esperienza detentiva. Si crea una simbiosi con le persone con cui condividi la sofferenza. Le loro storie diventano la tua. In carcere non ci sono “umani con tre braccia” ma gente comune, dal prete all’ex vigile. Finire in cella può accadere a chiunque perché la fallibilità fa parte dell’essere umano. Ecco, da tutte le storie che ho incontrato e che ho ascoltato, così diverse tra loro, emergeva un tratto in comune: la volontà di fare qualcosa per cambiare la condizione detentiva. Quindi abbiamo pensato di rimboccarci le maniche”.

Tra queste storie, quali sono quelle che si porta dentro?

“Direi quelle di chi ha vissuto sulla propria pelle gli errori giudiziari. A volte chi giudica dimentica che c’è in gioco la vita e la libertà delle persone. Bisognerebbe averne più cura. Queste storie sono state la molla principale per creare il nostro progetto”.

In cosa consiste “Mitiga”?

“È un’impresa sociale, costituita ad agosto 2023, con lo scopo principale di far trovare lavoro a chi è in stato detentivo e a chi è uscito dal carcere. Una sorta di “agenzia interinale fatta da detenuti per i detenuti”. Ora nel team siamo cinque. La nostra idea è favorire il reinserimento lavorativo rispettando anche le competenze e le attitudini naturali perché questo talvolta non avviene. Ci sono casi di persone che prima di entrare in carcere lavoravano, ad esempio, come pasticciere e dopo si son dovute reinventare come giardinieri. Un sistema penitenziario che non tiene conto della persona e della sua dignità non potrà mai favorire la reintegrazione nella società civile. Sarà più facile la recidiva”.

Come avviene il reinserimento lavorativo?

“Il progetto si divide in tre macro-aree. La prima è la “formazione interdisciplinare”. In questa fase si lavora sugli schemi cognitivi e comportamentali della persona. Dopo si procede a fornire una “formazione professionalizzante”, dando gli strumenti per imparare un lavoro. Si tiene conto delle figure professionali richieste dalle aziende e delle inclinazioni del detenuto. L’ultima fase è l’inserimento lavorativo. Per ora siamo riusciti a collocare una dozzina di persone ma non è stato facile”.

Perché?

“Nel momento in cui abbiamo presentato il nostro progetto a volte ci hanno persino riso in faccia. Ci siamo sentiti dire: “Carcerati che trovano lavoro ai carcerati? È assurdo”. La fiducia era poca. Poi le cose sono cambiate. Ora con Alessia Villa, presidente della Commissione carceri regionale, stiamo lavorando a un protocollo con Regione Lombardia. L’intento è quello di creare una rete con attori che si muovano all’unisono verso uno scopo comune e condiviso: la reintegrazione lavorativa”.

Cosa manca al carcere perché torni ad essere “umano”?

“Secondo me, bisognerebbe sensibilizzare, attraverso l’informazione, la società a questi temi. C’è ancora troppo pregiudizio. In secondo luogo, bisognerebbe ripensare e superare alcuni istituti. L’articolo 27 della nostra Costituzione parla di rieducazione. Ma è difficile rieducare una persona a 50-60 anni. Perché, invece, non si offrono ai detenuti possibilità? Ad esempio, la possibilità di ricominciare una nuova vita ed essere la migliore versione di se stessi, con un lavoro magari”.