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di Tommaso Giani

Corriere Fiorentino, 6 luglio 2023

Una settimana di vacanza sui generis a Milano: una proposta della Caritas di San Miniato in collaborazione con la Misericordia di Pontedera che fa ritrovare sullo stesso pulmino il sottoscritto insieme a una ragazza e un ragazzo del servizio civile e a 6 studenti delle superiori di Fucecchio e dintorni. Vacanza sui generis perché il luogo di soggiorno non è per niente mondano: la nostra meta è Vimodrone, all’estremo nord-est della metropoli lombarda; il punto d’arrivo del viaggio del pulmino è per l’esattezza il varco di ingresso di un cortile sovrastato dalla scritta a caratteri cubitali “Non esistono ragazzi cattivi”.

Scendiamo dal pulmino e ci ritroviamo dentro la comunità penale minorile Kayros: gli abitanti sono 40 adolescenti inviati in queste 4 palazzine tra loro comunicanti dal tribunale dei minorenni. Sono ragazzini che hanno commesso reati (spaccio, piccole rapine, furti, violenza di strada o violenza in famiglia) e che il giudice ha mandato agli arresti domiciliari in comunità anziché al carcere Beccaria. A dirigere questo avamposto educativo di frontiera per conto della giustizia italiana è un prete, don Claudio Burgio, che da 20 anni nella comunità Kayros ha scelto di andarci a vivere. Suo il motto contro lo stigma del ragazzo cattivo che campeggia all’ingresso. Sua la decisione di rispondere di sì all’invito che gli avevo fatto lo scorso inverno di ospitare in comunità 8 adolescenti di Fucecchio insieme a me, loro prof.

“Ci sono anche delle studentesse? Ahia...”, mi aveva sorriso don Claudio: “Questi ci provano anche con le educatrici, figurati cosa succederà con delle ragazze della loro età”. Don Claudio mi spiegò che la mia proposta era senza precedenti, e che se questa condivisione di vita tra ragazzini di strada lombardi e studenti toscani “per benino” da un lato lasciava presagire delle ottime potenzialità educative, dall’altra c’era il rischio che alcune delle dinamiche comunitarie sfuggissero di mano. “Senti Tommaso, facciamo così: noi vi ospitiamo, a giugno, ma te devi accettare che se la situazione diventasse di difficile gestione per gli educatori noi dovremmo rimandarvi in Toscana all’istante”.

Ma alla prova dei fatti, per fortuna, l’esperimento è riuscito. Non era scontato. Merito di tutti. Dei ragazzi della comunità, innanzitutto, che hanno accettato (chi a denti stretti chi con buonumore chi addirittura con entusiasmo) questa invasione di campo della scolaresca della Caritas: nelle varie unità abitative i baby detenuti e i miei studenti hanno cucinato insieme, fatto delle gite in montagna e in piscina, giocato interminabili partite a biliardino e a calcio, intervistato rapper, raccolto zucchine, ascoltato musica trap fino alla noia, e soprattutto cazzeggiato a volontà: tanti scherzi, ma anche storie di vita da condividere, che lasciavano intuire i background familiari devastanti e il fallimento della scuola pubblica che quasi sempre sono all’origine dei reati commessi.

Io e i miei studenti abbiamo anche visto all’opera gli educatori (alcuni di loro ex ragazzi della stessa comunità, che negli anni sono riusciti a laurearsi e a tornare qui come formatori): è un lavoro difficilissimo, perché la privazione della libertà si sente eccome; e così il non essere liberi genera nervosismo, tensioni e liti accesissime da dirimere con pazienza, fermezza e amore.

Ma allo stesso tempo è anche un lavoro appassionante: perché a differenza dei professori a scuola, qui gli educatori hanno un margine di manovra molto più ampio; in comunità educatori e ragazzini non stanno solo in aula ma vivono insieme, parlano un sacco di tempo a tu per tu, concordano dei percorsi formativi su misura; viaggiano insieme, imparano insieme, cercando di grattare piano piano quella maschera del piccolo gangster pieno di tatuaggi strani che tanti dei ragazzi della comunità esibiscono per paura; e invitandoli a trovare, fuori dall’omologazione, i veri se stessi, per masticare parole nuove come dolcezza, empatia, responsabilità; e farle proprie, e sentirsi finalmente liberi.