di Luigi Ferrarella
Corriere della Sera, 21 settembre 2024
“Scusa se non siamo stati capaci di tutelarti”. Oltre duecento persone alla cerimonia laica organizzata dall’avvocato Paolo Oddi. La voce di Lella Costa per le parole di Fabrizio De Andrè, il messaggio di Daria Bignardi, l’intervento di Fabio Fazio e le riflessioni dell’arcivescovo Mario Delpini. Una commemorazione laica, “non solo come modo per salutare Youssef” Mokhtar Loka Barsom, il 18enne egiziano carbonizzato nel rogo della propria cella a San Vittore tra il 5 e 6 settembre, “ma anche - esordisce tra gli organizzatori Paolo Oddi, avvocato nel settore dell’immigrazione - per chiedergli scusa come comunità per non averlo saputo tutelare nella cura dei suoi disturbi di personalità”, per lanciare “un grido d’allarme sulle condizioni dei detenuti nelle carceri in questo momento”, e per fare attenzione al fatto “tra i detenuti i migranti reclusi sono persone a cui per giunta viene negata persino l’identità, numeri che passano nel tempo”.
Sono più di duecento le persone accalcatesi dalle 18.30 alle 20 di venerdì nel Cam di corso Garibaldi 27. Uno schermo proietta i selfie che il ragazzo amava farsi, a cominciare da quello - oggi impressionante - di lui sorridente in piazza Duomo; l’arpa di Roberta Pestalozza suona Bach, l’attrice Lella Costa legge “Preghiera di gennaio” di Fabrizio De Andrè, l’avvocata Antonella Calcaterra porta un messaggio di Daria Bignardi, Fabio Fazio interviene con un audio. “Però per me commemorare Youssef significa fare un’operazione-verità su quello che c’è stato prima della sua morte - interviene don Roberto Mozzi, fino ad agosto cappellano a San Vittore -. È già da quattro mesi che a San Vittore le celle bruciano, e dentro ci sono persone che non sempre escono incolumi salvati dagli agenti. San Vittore continua a bruciare, c’è un rogo a settimana, ora c’è Amin a Niguarda”, rivela il sacerdote riferendosi a un detenuto straniero che, tre giorni dopo la morte di Youssef, una volta usciti i compagni di cella ha appiccato il fuoco e ci si è buttato dentro come protesta per talune richieste a suo avviso negategli, ed ora è ricoverato in ospedale con ustioni sul 18% del corpo. Don Mozzi elenca la casistica quotidiana di “bisogni inascoltati” che concorrono poi all’insondabile terreno si cui maturano di colpo i gesti estremi: “Il fuoco è pericoloso, come viene spiegato ai detenuti quasi che non lo sapessero già, ma in questo momento il carcere di San Vittore lo è di più”.
Chi aveva visitato l’istituto pochi giorni prima, come l’europarlamentare Ilaria Salis, dice di “essersi sentita gelare il sangue alla notizia della morte di Youssef, al pensiero che magari era tra coloro che avevo visto e con cui avevo parlato quel giorno”; mentre chi visita San Vittore con assiduità, come la presidente Valentina Alberta della Camera Penale, addita la necessità di “non assuefarsi alla situazione, all’idea del meno peggio” in una struttura da 450 posti che detiene 1100 reclusi, e nel rogo di Youssef scorge “un punto di non ritorno: basta, le carceri vanno svuotate”. E Ruggero Giuliani, coordinatore della sanità penitenziaria, riflette sul fatto che “anche io e i miei colleghi dobbiamo forse fare autocritica, nel senso che dobbiamo forse occuparci di più non solo della salute dei detenuti ma anche delle condizioni di vita che in carcere determinano la loro salute”.
Ma come sempre accade quando si ascolta e ci si ascolta per davvero, l’ascolto proprio delle (poche) persone che conoscevano Youssef apre anche a un altro angolo di visuale: “Molti di noi hanno alacremente lavorato per lui - racconta il suo avvocato Monica Bonessa, riferendosi a legali, educatori, tutori, medici e magistrati che a vario titolo e in vari momenti avevano incrociato la parabola del giovane - eppure il sistema ha fallito, non siamo stati sostenuti dall’inadeguatezza delle disponibilità nelle comunità terapeutiche, hanno la metà dei posti per cui c’è una lista d’attesa, e intanto questi sono ragazzi che non è vero che rubino solo la collanina, a causa dei loro vissuti hanno anche impulsi aggressivi che devono ricevere assistenza: se il sistema avesse funzionato, Youssef non sarebbe finito a San Vittore, e anzi ancor prima non sarebbe finito in strada a fare quello che poi l’ha portato a San Vittore”.
E a spiazzare ancor di più la platea arriva colei che era la volontaria tutrice legale del giovane, Chiara Poletti: “Il problema di Youssef non era San Vittore, il suo problema è stato prima: è il tema dei disturbi mentali di questi giovani di cui non ci si occupa. Ecco - alza l’asticella a un’altezza che nell’intimo mette in discussione ciascuno di quelli venuti a partecipare alla commemorazione -, dal 2017 esiste la legge Zampa, quella che permette ai cittadini di fare i tutori legali volontari: quando vedrete uno di questi giovani magari fuori dalla Stazione Centrale, magari non voltatevi e non andate via. Magari fateci un pensierino”.
Ed è in questo solco che l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, coglie nella storia di Youssef “uno strazio che porta alla ribalta della cronaca una vicenda segnata da troppo dolore, troppa fragilità, troppa complessità”, in una sequela di “si dovrebbe” snocciolati dal prelato: “Si dovrebbe evitare di rimuovere frettolosamente dalla attenzione dell’opinione pubblica come notizia che viene subito cancellata perché racconta una storia inquietante. Si dovrebbe evitare di attribuire sbrigativamente colpe e inadempienze sulle persone che dirigono e lavorano in carcere, in un sistema che è unanimemente riconosciuto insostenibile. Si dovrebbe evitare che una vita umana valga così poco”. Più un aspetto squisitamente religioso perché “Youssef è anzitutto una storia, e anche una fede: viveva con orgoglio il suo essere cristiano, appartenente alla Chiesa copta ortodossa. Chiedo a ognuno, a qualsiasi religione appartenga, di elevare una preghiera; rivolgo ad ogni donna e uomo di buona volontà un appello perché si rifletta, si avanzino proposte, si offrano risorse affinché tutto il tema carcere sia affrontato e saggiamente corretto”.
Intanto nell’inchiesta del pm Carlo Scalas (che per motivi solo formali al momento procede per ipotesi di omicidio colposo a carico del compagno di cella) le prime indicazioni dell’autopsia svolta mercoledì sembrerebbero ricostruire che il giovane sia morto per le esalazioni del fumo del rogo, forse appiccato per una forma di protesta trascinando il letto nel bagno con l’aiuto del compagno, salvo poi non riuscire più a uscirne perché la pesante rete del letto avrebbe finito per bloccare la porta.