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di Elisabetta Andreis

Corriere della Sera, 28 ottobre 2023

“I miei quadri in Vaticano per Papa Francesco. Con l’arte riempio il silenzio”. Collegato alla mafia catanese, 74 anni, è detenuto a Opera. La sua mostra “Rinascita” dai penitenziari all’Auditorium San Fedele. “Grazie ai quadri sono riuscito ad agganciare le mie due figlie. Sono un monito per i giovani”. Qualche mese fa, chino davanti a una tela bianca, pennello e tavolozza in mano, c’era un uomo che piangeva. Poi però la tela ha preso vita. I colori hanno dato forma a un dipinto piccolo e importante. E martedì, l’uomo ha consegnato il suo quadro, ispirato alla settecentesca Madonna che scioglie i nodi, a Papa Francesco. Si sono incontrati al Vaticano, si sono seduti vicino, hanno parlato. Eppure il pittore, che si chiama Marcello d’Agata, ha un nome “pesantissimo”, collegato alla famiglia di Nitto Santapaola e ai tempi terribili e bui della sanguinosa violenza catanese, quando Cosa nostra voleva mostrarsi intoccabile e spietata, e da quelle parti continuava a mietere vittime. D’Agata ha passato dieci anni al 41 bis e ora - da vent’anni - sconta l’ergastolo più severo, con la scritta ufficiale e immutabile sul foglio: “Fine pena mai”.

Eccolo, D’Agata: “Mi attacco alla pittura come fosse la mia vita. Grazie ai quadri sono riuscito ad agganciare le mie due figlie, mi è venuta voglia di nutrire un po’ di speranza. L’arte è l’unica cosa che forse mi permetterà di lasciare loro anche qualche ricordo di cui non mi vergogno”. Le figlie sono cresciute lontane da lui che aveva rotto ogni rapporto familiare “per non metterle a rischio”. Quelle figlie le ha ritrovate da poco, pochissimo. C’è sempre da scoprire qualcosa degli uomini, quando si scende negli abissi dei condannati che provano a non morire tra quattro mura.

Già nel 2018 due dei quadri di d’Agata, una “Natività” e una “Annunciazione”, erano stati scelti dall’Ufficio filatelico del Governatorato della Città del Vaticano per illustrare alcuni francobolli pontifici. Un grande onore: anche perché in questo tempo che parla (quasi) solo a chi è online, i detenuti sono rimasti forse gli unici che per chiedere a qualcuno “come stai?” devono ancora prendere carta e penna, scrivere, imbustare. E infine affrancare.

“In cella abbiamo così tanto tempo da soli, con il silenzio intorno, che dipingiamo i quadri per avere qualcuno con cui parlare”, sorride d’Agata. Baffi e occhi piccoli, minuto nei suoi 74 anni, con l’aiuto del Touring Club Italiano e dell’associazione “Dentrofuoriars” ha organizzato la prima mostra di opere realizzate da persone recluse nei quattro penitenziari milanesi - da Opera a San Vittore, dal Beccaria a Bollate. E adesso, quella mostra, che hanno chiamato “Rinascita”, grazie ai volontari del progetto Touring “Aperti per voi” rimarrà nel foyer dell’Auditorium San Fedele di via Hoepli fino al prossimo 5 novembre.

Riavvolge il nastro, Marcello d’Agata. A casa erano otto figli. “Mio padre decise che quattro potevano studiare e quattro dovevano lavorare”. Lui a dodici anni faceva i turni di notte al bar del benzinaio di famiglia e di giorno dormiva in macchina. “Al bar, con il buio, veniva un giovane, prendeva il caffè, parlavamo. Tutto è iniziato da lì”, ricorda. Non dà la colpa a nessuno se non a se stesso, racconta ancora con un brivido come è entrato nel clan, con il “battesimo del sangue” e il banchetto con la tavola imbandita e i boss di Cosa nostra intorno. “Mi piacerebbe che la mia storia servisse a qualche ragazzo per evitare di finirci dentro”, alza lo sguardo. E poi: “Il regime del 41 bis è giusto, non ho mai pensato un attimo di dover pagare in modo diverso per quello che ho fatto. Ma una cosa pesa tantissimo, lì. E si tratta in fondo di una cosa molto semplice: non poter neanche cucinare. Nelle altre sezioni i detenuti preparano i piatti che mangiano: è un modo di sfogarsi, di passare il tempo. Ci si scambiano le ricette, “ho fatto questo tipo di carne, ho fatto questo tipo di pasta”.

Magari sarebbe diventato un cuoco, d’Agata, invece ha trovato la sua strada nell’arte pittorica. Una figlia lo abbraccia: “L’uomo non è il suo errore, ma ci vuole tanta sofferenza per capirlo. Ognuno deve avere la possibilità di rinascere se stesso”; è arrivata da lontano per l’inaugurazione della mostra. Il papà per una frazione di secondo sorride: “Dentro ai nostri quadri, oltre ai nostri errori ci sono tutte le nostre speranze e le nostre scuse”.