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di Zita Dazzi

La Repubblica, 11 settembre 2023

Don Rigoldi: “Per recuperare i ragazzi serve la formazione”. L’assessore Bertolé: “Tante le strutture del privato sociale che chiudono. Abbiamo 1.300 minori stranieri non accompagnati in carico, altri 300 per strada”. I ragazzi devianti escono ed entrano dal carcere Beccaria, scappano dalle comunità per minori, ma ora scappano anche gli educatori di questi centri specializzati nell’accoglienza degli adolescenti “difficili”.

I ritmi di lavoro sono troppo pesanti, i problemi enormi e da gestire con poche risorse, le fughe all’ordine del giorno, gli arrivi continui, le storie sempre più drammatiche, le fedine penali già lunghe e le diagnosi psichiatriche pesanti. Bastano questi motivi a convincere anche il più motivato degli operatori sociali, dopo un po’, a mollare il colpo, a cercare un lavoro meno stressante e magari meglio retribuito. La presidente del Tribunale per i minorenni Maria Carla Gatto ha lanciato l’allarme sulla scarsità di strutture per accogliere i ragazzi che entrano nel percorso penale. Ragazzi italiani, ma sempre più spesso anche ragazzi migranti di seconda generazione, ai quali si aggiungono quelli non accompagnati che arrivano in Centrale ed entrano subito nella sfera della piccola delinquenza, dello spaccio.

I numeri degli autori reati sono in crescita e i posti liberi nelle comunità in calo: la rete conta decine di indirizzi dentro e fuori il territorio comunale, i posti sono centinaia, alcuni anche per le emergenze, come nel centro di via San Marco, 30 letti. Ma l’assessore al Welfare di Milano, Lamberto Bertolé rilancia l’appello della presidente Gatto: “Abbiamo 1.300 minori stranieri non accompagnati in carico, altri 300 in strada, alla mercé della criminalità. Ci vorrebbero molti più posti nelle comunità, ma non ne troviamo: i nostri dobbiamo mandarli anche fuori regione, pur di trovar loro una sistemazione. Ma senza una redistribuzione sul territorio e più risorse per il welfare che consentano alle comunità di trovare operatori, non ce la facciano. Il governo deve ascoltarci e intervenire. Ormai è in crisi anche il privato sociale che gestisce i centri accreditati che lavorano in convenzione con gli enti locali. Il personale scarseggia. Le strutture chiudono. Gatto ha perfettamente ragione, ma se non ci aiuta lo Stato, il Comune da solo può poco da solo di fronte all’aumento dei reati commessi dai minori, che andrebbero accolti, seguiti con attenzione e aiutati a trovare una strada diversa”.

È un problema che segnala dall’alto della sua vasta esperienza, anche don Gino Rigoldi, quasi 85 anni, fondatore di Comunità Nuova, da 50 anni cappellano del carcere Beccaria, uno che vive in comunità con 15 ragazzi stranieri, tutti nordafricani, come il ragazzo che ha adottato: “Le comunità hanno il grosso problema della carenza di educatori, ma anche quello di trovarne di super specializzati a stare in relazione con n giovani, una virtù che si conquista studiando, imparando giorno per giorno. Oggi per varie comunità conta più il regolamento che la relazione, l’unica chiave che serve per entrare in contatto coll’adolescente”. Don Rigoldi, che tutti i giorni entra in cella a parlare con i nuovi arrivati del Beccaria - presto incontrerà anche i due baby rapinatori 17enni arrestati ieri - racconta quale è la difficoltà oggi nella gestione di questi giovani: “Vengono da paeselli dell’Egitto o del Marocco, sono analfabeti, le loro aspettative sono diverse dalle nostre, sono venuti qui per guadagnare e il metro di misura che usiamo per gli italiani non funziona più. Infatti, io al Beccaria farò venire almeno due o tre Imam che lavoreranno con i ragazzi, che nell’80 per cento dei casi sono musulmani.

E poi servono mediatori culturali per la lingua e per aiutarli a collocarsi mentalmente nel posto dove sono arrivati”, spiega il sacerdote, che con la sua Fondazione ha aiutato centinaia di ex del Beccaria a imparare un mestiere e a rientrare nella legalità, attraverso il lavoro. “Loro scappano dalle comunità perché sono caratteriali, perché pensano di perdere tempo dietro alle sbarre. Per aiutarli davvero occorre far fare loro corsi di formazione che li portino a trovarsi un impiego onesto, una volta scontata la pena. Mio figlio ha fatto cento chilometri nascosto in un camion e a piedi per venire in Italia: noi non ci possiamo nemmeno immaginare le storie che hanno alle spalle, le energie che possono incanalare in un modo positivo”.