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di Sabina Pignataro

La Repubblica, 30 agosto 2023

Il criminologo Paolo Giulini, cofondatore del Centro italiano per la promozione della mediazione: “Il trattamento non cura questi ragazzi: non c’è nulla di patologico in loro. Semmai li portiamo ad avere consapevolezza del reato e a rielaborarlo, per evitare recidive”.

“Di fronte all’aumento di minori che agiscono violenza sessuale la forma di intervento più adeguata non è chiuderli in carcere e buttare la chiave, ma sottoporre questi giovani a trattamenti criminologici specifici con l’obiettivo di aiutarli a maturare piena consapevolezza del reato commesso e della sua gravità, e scongiurare il rischio che ripetano il gesto. Peccato, però, che in Italia questi programmi scarseggino”. Lo spiega Paolo Giulini, criminologo clinico, cofondatore del Cipm (Centro italiano per la promozione della mediazione) che ha una trentennale esperienza con gli autori di reati sessuali presso la Casa di reclusione di Milano-Bollate.

La messa alla prova - “Da dieci anni il Cipm ha sviluppato una serie interventi dedicati proprio agli adolescenti e ai giovani adulti”. Oggi il gruppo è composto da quindici persone, con un’età che va dai 15 ai 28 anni. La maggior parte di loro è accusato di violenza sessuale su coetanee o famigliari (per lo più verso sorelle); alcuni di adescamento o di detenzione di materiale pedopornografico. “Non tutti quelli che frequentano il nostro gruppo settimanale provengono dal carcere però”, specifica Giulini. “La legge italiana prevede, infatti, che il Giudice possa sospendere il procedimento penale attivando una “messa alla prova”, per valutare l’eventuale cambiamento del minorenne”. Al termine del percorso (che può durare al massimo tre anni) il Giudice deciderà se dichiarare l’estinzione del reato oppure se procedere con il processo.

La capacità di recuperare - “La messa alla prova è prevista anche per reati tremendi come l’omicidio e lo stupro: ciò che conta, infatti, non è la gravità del reato quanto capacità del minore di recuperare”. La scelta della terminologia utilizzata dice molto. “Li chiamiamo “giovani autori di violenza” invece di “giovani violenti o maltrattanti” nella convinzione che vi sia la possibilità di lavorare sui comportamenti. Pur riconoscendo che non tutti cambieranno”. A tal proposito Giulini sottolinea che “il trattamento non cura il minore. Non c’è nulla da curare perché nella maggior parte dei casi, all’origine del gesto, non c’è una patologia psichiatrica, una malattia mentale, una incapacità di intendere. Alla base si riscontra piuttosto una fragilità che deriva da un complesso intreccio di aspetti sociali, culturali, relazionali, emotivi e identitari”.

Quello con questi giovani è un lavoro che avanza gradualmente. “Spesso all’inizio manifestano meccanismi di difesa, di negazione o di minimizzazione dell’atto commesso, e mancano di empatia nei confronti della vittima, ignorando le ripercussioni che il loro gesto ha, e avrà, sulla traiettoria di vita della ragazza”. Il confronto avviene spesso in un gruppo tra pari. “La maggior parte di loro partecipa alle attività, frequenta gli incontri con i criminologi e gli psicoterapeuti e si affida agli educatori, altri invece non credono di dover cambiare, ma solo di dover prendere parte al percorso per non subire delle conseguenze”. Ad esempio per evitare il carcere.

Il rischio di recidiva - Questi trattamenti funzionano? “La valutazione del rischio di recidiva è un obiettivo necessario e al contempo complesso da realizzare. Per avere un dato sulla recidiva dovremmo continuare a seguire i ragazzi una volta terminato il percorso, ma questo non ci è possibile. Dal nostro lavoro trattamentale ventennale con gli autori adulti, comunque, emergono risultati molto incoraggianti.

È ormai evidente che limitarsi a punire, senza attivare un trattamento peggiora la situazione. Nel caso specifico del lavoro con i più giovani è dirimente considerare in quale contesto famigliare e sociale avviene il percorso. Se i ragazzi provengono da un nucleo familiare disfunzionale, maltrattante o comunque non adatto a rispondere ai loro bisogni di crescita, viene attivato un trattamento settimanale anche per i genitori”.

Il reinserimento sociale - A Milano il Cipm ha avviato anche il progetto “Circolo di Sostegno e Responsabilità”: “tre volontari, formati, supervisionati e in contatto con gli operatori del trattamento - conclude Giulini - si impegnano nella presa in carico e accompagnamento del giovane autore di reato a rischio di recidiva, aiutandolo nei propri bisogni di reinserimento e fornendogli un supporto per parlare delle proprie difficoltà”. Questo intervento si basa sui principi della giustizia riparativa, attraverso cui i partecipanti vengono coinvolti e responsabilizzati nel percorso di reinserimento sociale. “Le valutazioni su questi Circoli, avviati da più di una trentina di anni in Canada hanno dimostrato una drastica diminuzione del tasso di recidiva”.

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