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di Donatella Stasio

La Stampa, 21 aprile 2024

Il progetto dell’ex ministra Cartabia: la classe dirigente di domani dialoga con gli ospiti di San Vittore. Metti insieme dieci bocconiani tra i 19 e i 20 anni e trenta detenuti tra i 28 e i 60: il futuro mondo dell’economia e della finanza con “gli scarti della società”, la potenziale classe dirigente del paese con gli eterni “ultimi” che non saranno mai i primi perché il marchio del criminale ti resta addosso più di un tatuaggio, ben oltre il tempo della pena e malgrado la Costituzione. Mettili insieme a parlare proprio di questo, di quel “fine pena mai” dopo il fine pena, in un’aula del carcere milanese di San Vittore, per un’intera mattinata di aprile che si concluderà malinconicamente, perché malinconica è la verità di una Repubblica ancora incapace di “rimuovere gli ostacoli” per trasformare il tempo liberato in un tempo operoso e accogliente, per dare un senso al reinserimento nella società civile, per superare il pregiudizio dei liberi verso i liberati, e per evitare che l’alternativa all’abbandono e alla solitudine sia la recidiva.

L’idea è di Marta Cartabia, tornata a insegnare all’Università dopo i nove anni alla Corte costituzionale, di cui è stata presidente, e i due come ministra della Giustizia nel governo Draghi. Insieme al giovane professore Davide Paris hanno organizzato due gruppi di dodici studentesse e studenti del corso di diritto costituzionale per seguire alcune lezioni dell’anziano professor Antonio Casella, storico volontario di San Vittore, nell’ambito del progetto formativo “Costituzione Viva”.

La partecipazione è volontaria e non “fa punteggio” né per i bocconiani né per i detenuti. Niente buonismi e niente utilitarismi. L’idea di fondo è che per essere “buoni giuristi”, non basta studiare i manuali ma occorre confrontarsi con la realtà e saper interagire con ciò che si vede. “Bisogna aver visto”, diceva Piero Calamandrei parlando del carcere. D’altra parte, il “buon detenuto” non è quello che si fa muovere da altri ed esegue gli ordini, ma è una persona che impara a esercitare la libertà di autodeterminazione e la responsabilità anche interagendo con gli altri.

Ogni sabato, da sei settimane, i bocconiani si presentano alle 10 davanti al n. 2 di piazza Filangieri, uscendone due ore dopo. Ed eccoci all’ultimo incontro. Otto ragazze e due ragazzi varcano puntuali il portone, attraversano blindati, cancelli, la grande rotonda di San Vittore, ed entrano nel Terzo Raggio, di qua e di là celle sature di letti e di corpi, sguardi che si incrociano. Torna in mente quel “bisogna aver visto” che impone di entrare, di guardare e di raccontare, anche se il carcere non si offre più alla vista come una volta, forse per non rivelare che dietro la propaganda politica c’è l’immobilismo di sempre, anzi, un progressivo peggioramento, che qui a San Vittore significa il 160% di sovraffollamento, 1.080 detenuti, di cui ben 650 stranieri, tanti quanti sono i posti regolamentari, per cui i 400 detenuti in sovrappiù vengono stipati in celle che, invece di svuotarsi, continuano a riempirsi. “In passato, arrivati a 850 presenze, sfollavamo”, ricorda il direttore Giacinto Siciliano; ma adesso, dove sfolli se non c’è un posto in nessuna delle 180 patrie galere?

La popolazione carceraria aumenta di quattrocento unità al mese e al 31 marzo era di 61.049 detenuti. Il 63% vive in 102 prigioni con un sovraffollamento maggiore del 130%, il 35,5% in 62 prigioni con più del 150% di sovraffollamento e l’11% in sedici prigioni con una densità maggiore del 180%. Ciò significa promiscuità forzata, convivenza soffocante, meno occasioni di lavoro interno (perché si segue il criterio della rotazione), malessere e aggressività in aumento, come l’uso di psicofarmaci, impennata di suicidi, già 32 i detenuti che si sono ammazzati, e quattro i poliziotti. “Gli agenti sono stanchi e fanno quasi tenerezza”, commenta uno dei detenuti dal fondo dell’aula, dove nel frattempo sono confluiti insieme ai bocconiani. Tra strette di mano e sorrisi, si sono seduti in ordine sparso, uno accanto all’altro, e ora ascoltano Casella che sgrana come un rosario i numeri del carcere.

“Reinserimento” è il titolo della lezione. Esci, finalmente. Ma senza una rete di sostegno, per la gran parte degli ex detenuti comincia una nuova pena. Che spesso li porta alla recidiva. Trovare un lavoro, ricostruire relazioni, anche familiari e affettive, risolvere il problema della casa. Una pena senza fine. Bisogna aiutarli. Lo dice la legge, una grande legge, la riforma penitenziaria del 1975, che come tante buone leggi è rimasta sulla carta. Casella ricorda l’articolo 74, che prevede i “Consigli di aiuto sociale” per accompagnare “fuori” i detenuti e di cui fanno parte giudici, prefetti, sindaci, uffici del lavoro. Hanno compiti di assistenza, formazione professionale, ricerca del lavoro, sostegno alla famiglia... Peccato che, in quasi cinquant’anni di vita, non ne sia nato neanche uno. In aula cala lo smarrimento.

Non a caso, i suicidi avvengono più spesso, oltre che nei giorni successivi all’ingresso in carcere, in quelli che precedono l’uscita, o subito dopo, per la paura dello stigma sociale, del vuoto di affetti e di lavoro, della solitudine. Come non ricordare Brooks, il detenuto bibliotecario del film “Le ali della libertà” di Frank Darabont, che uscito dal carcere dopo cinquant’anni non regge l’impatto con la libertà e si impicca.

“È previsto un sostegno psicologico all’uscita?” chiede una ragazza. Prima che Casella risponda, nell’aula risuonano tanti no. “Ma non è colpa del carcere - si affretta a spiegare un detenuto -. Il problema è che non c’è un collegamento tra il carcere e il fuori”. E un altro: “Si fatica a trovare un posto dove dormire, un lavoro. Quando esci nessuno ti indirizza da qualcuno o da qualche parte. Esci e basta. Io ho dovuto inventarmi un indirizzo nel negozio di un amico, ma c’è chi è andato a dormire su una panchina. E se non hai domicilio, è difficile trovare un lavoro”.

I dati di Casella dicono che quasi la metà dei circa 61 mila detenuti è di fatto analfabeta, che gli stranieri sono in media più giovani degli italiani, i quali hanno il “monopolio” delle pene più alte. Dicono anche che le retribuzioni dei detenuti “lavoranti” sono pari a due terzi di quelle previste dai Contratti collettivi, che a lavorare è solo il 31% della popolazione ristretta, ma di questi ben l’85% dipende dall’amministrazione (cucina, pulizia, manutenzione), con “lavoretti” poco qualificanti perché non ci sono soldi da investire nella formazione. “Incredibile” commentano i bocconiani. Ma anche quando dentro si impara un lavoro vero, e nonostante gli incentivi e gli sgravi previsti dalla legge Smuraglia per le aziende che assumono ex detenuti (solo 518 imprese nel 2023, pari alla metà degli stanziamenti), la domanda che fa da sottotesto a questa mattinata in carcere è: chi dà fiducia a un ex galeotto?

Infatti, i tirocini non decollano, salvo rarissime eccezioni, come raccontava Il Sole 24 Ore di ieri per i bandi di appalto dei lavori di sviluppo dell’area Expo, in cui è stata inserita una clausola che impegna i vincitori ad attivare tirocini retribuiti ai detenuti (ce ne sono stati cinquanta, di cui 18 trasformati in contratti di lavoro). Gocce nel mare. “Bisognerebbe proporre che le aziende con un tot di dipendenti siano obbligate ad assumere un detenuto” ipotizza il direttore Siciliano, a fine lezione. Una strada tutto sommato rapida e semplice. La futura classe dirigente è avvertita.