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di Chiara Amati

Corriere della Sera, 30 novembre 2023

Si trova dentro al carcere di Bollate, in provincia di Milano, il solo ristorante in Italia aperto al pubblico. Vi lavorano detenuti regolarmente pagati. Con un obiettivo: permettere loro di apprendere la cultura del lavoro o riappropriarsene. E tornare, a fine pena, in società. Oggi la storia di “InGalera”, questa l’insegna del locale, è raccontata in una serie podcast completa

Ristorante in carcere, ecco “InGalera”: la storia di un caso unico in Italia raccontata in un podcast

Ha suscitato rinnovata curiosità il progetto del ristorante “InGalera”, nato nel 2015 da un’idea di ABC La Sapienza in tavola, cooperativa che fin dal 2003 si occupa di servizi di catering gestiti con lavoratori detenuti ammessi alle misure alternative alla carcerazione. Ha suscitato rinnovata curiosità perché su Spotify e sulle principali piattaformestreaming è ora disponibile una serie podcast scritta e prodotta da Officine del Podcast, con la voce narrante della giornalista Tiziana Ferrario - “InGalera” appunto -, che racconta la genesi, le difficoltà e il successo umano di un esperimento che non ha uguali. Quello, cioè, di un locale gourmet all’interno della IIª Casa di Reclusione di Bollate, carcere di media sicurezza alla periferia nord-ovest di Milano. Un locale raffinato in una prigione aperto, però, agli esterni.

“InGalera”, storia di una insegna rivoluzionaria - “Vent’anni fa accettai la proposta “indecente” di Lucia Castellano, l’allora direttrice del carcere che mi portò a fondare ABC La Sapienza in tavola - spiega Silvia Polleri che della cooperativa è presidente. “Signora, vorrebbe aprire un catering con i detenuti a prestare servizio e portarli fuori a lavorare?”, mi chiese. Bellissimo, pensai tra me. Uscivamo dal carcere con la scorta e andavamo, come in missione, a dispensare momenti di felicità a committenti di banchetti vari e ai rispettivi ospiti. Una volta portammo un rapinatore di banche, condannato, a servire ai tavoli di un ricevimento in banca”. Nel 2015 la situazione si ribalta: “Fui io a formulare una proposta alla direzione: “Mi permettereste di aprire un vero ristorante dentro al carcere, che sia però gestito da detenuti e aperto al pubblico?”.

Un azzardo. “Il più bello della mia vita perché frutto di vent’anni di appassionato lavoro - tiene a sottolineare Polleri -. Sono stata al servizio della Milano Bene per una vita. Poi, d’un tratto, mi sono trovata a gestire dei detenuti. Un salto non facilissimo. Ma la sfida era esaltante. Ho raccolto il guanto a una condizione. Anzi due: doveva a essere per un anno soltanto, il tempo necessario a portare il bon ton in prigione con tutte le attrezzature necessarie. Missione complicata considerato che per entrare in una casa circondariale ci sono regole ferree. Ma avevo chiarissimo un concetto: nel portare avanti il progetto, non volevo che il nostro catering fosse quello della misericordia. E poi desideravo che l’attività si trasformasse in un lavoro vero e proprio, quindi regolarmente retribuito, per ogni detenuto. Questione di dignità”. Detto, fatto.

Dalla scuola alberghiera al ristorante - Il progetto si avvia. Nel 2012 la svolta: all’interno del carcere di Bollate si insedia una sede staccata dell’Istituto alberghiero Paolo Frisi. Obiettivo: formare i detenuti al lavoro in previsione di una nuova vita dopo la pena. Non potevo immaginare nulla di meglio”. Eppure il meglio doveva ancora arrivare. L’annus mirabilis è il 2014 quando Polleri riceve una proposta da PWC, società di consulenza e revisione legale e fiscale. “Mi chiesero di aprire insieme un ristorante, ma serviva una location: in dodici mesi non riuscirono a identificarne una. Così rilanciai: “Perché non dentro al carcere? Avevo anche già pensato al nome: InGalera, ça va sans dire. Lo ammetto, ricordo ancora oggi certi sguardi di chi, con tutta probabilità, era convinto che fossi matta. Massimo Parisi, che nel frattempo era diventato direttore, non si scompose e accettò di buon grado. Pronti, via: anche grazie al sostegno di privati, della Fondazione Cariplo e della Fondazione Peppino Vismara, la prigione di Bollate ebbe il suo ristorante gourmet. Con l’insegna che avevo pensato, ben sapendo che sarebbe stato rischioso. D’altra parte, chi poteva andare a mangiare in una prigione? Ma quello delle carceri è un mondo a sé, sconosciuto ai più e che la gente, se ne ha la facoltà, visita. Così è stato: s’è creato un interesse che dura ancora oggi”.

Cosa si mangia “InGalera” - Inaugurato nel 2015 al piano terra dei dormitori delle guardie carcerarie, in uno spazio che può contenere da 50 a 70 posti, “InGalera” da allora ha servito 100mila pasti circa e dato lavoro a un centinaio di detenuti da 30 a 50 anni, a pranzo e a cena. Maître e chef sono professionisti: lo chef arriva dalla scuola di cucina Alma di Gualtiero Marchesi, mentre nella brigata ci sono persone che avevano esperienza nella lavorazione dei cibi, altre invece partite da zero. Le mansioni di sala ed esecuzione del menu affidate ai detenuti - si legge nella Guida Michelin che cita il ristorante - sono allineate, per modalità e risultati, a quelle di altri professionisti del settore. Il menu è gourmand: tra le portate più gettonate per lo più a pranzo ci sono, a titolo di esempio, risotto al nero, moscardini alla luciana e polvere di tarallo; fish and chips di ombrina in porchetta; bavareisa o bicerin all’amaretto. E poi, ravioli di zucca con burro alla nocciola, guanciale e mostarda di mele; tournados di maialino su torretta di patate, salsa al Cortefranca e pere Williams; semifreddo ai cachi. A cena si comincia con una tartara di blonde d’Aquitaine, uovo, acciuga, cappero, senape, worchester sauce. Gli amanti dei primi piatti possono scegliere tra pappardelle al ragù di capriolo o gnocchi di polenta di storo su crema di gorgonzola e gustarsi poi un filetto di manzo alla Voronoff con carote alla parigina. Il tutto da degustare con una delle tante bottiglie di vino - rossi, bianchi, rosé, bollicine - da ogni regione d’Italia. Chi si è seduto a mangiare, di InGalera ha elogiato la cucina: “Eccellente”. Il personale? “Gentile e preparato”. I clienti vengono trattati con i guanti bianchi, accolti da un cameriere in livrea, seguiti per tutto il tempo con garbo e attenzione.

Silvia Polleri, una vita spesa per gli altri - Ha la voce fiera Polleri. Di chi ne ha viste tante, ma non abbastanza e per questo sa ancora stupirsi. A 73 anni, due figli e tre nipoti, ha vissuto molte vite: è stata educatrice in una scuola materna prima, ha prestato servizio civile in Uganda insieme al marito medico e ai due bambini, poi ha supportato famiglie in difficoltà nei quartieri più malfamati di Milano e, infine, si è reinventata nella ristorazione, il suo primo amore. “Cucino da che avevo 9 anni. Da quando cioè mia nonna mi pose tra le mani un chilogrammo di moscardini grossi quanto un pollice dicendomi: “Me li puliresti, nanìn?”. Una vera ossessione per me perché il cibo è creatività e fornisce gli strumenti per esaltare la vita. Questa esperienza mi ha insegnato che la ristorazione è un mezzo potentissimo: impone il rispetto delle regole, ma soprattutto insegna ad accogliere. L’accoglienza è la funzione più alta dell’essere umano”. Una rivoluzione gentile quella di Silvia Polleri, Ambrogino d’Oro 2015 “che ho sempre condiviso con tutti perché da sola non avrei fatto nulla”, tiene a puntualizzare lei. Ma anche un rovesciamento della prospettiva che dimostra come i detenuti possano tornare a essere cittadini responsabilmente proattivi all’interno della società. Con un rischio di reiterazione del reato inferiore alla media, proprio grazie a progetti come questo. “Serve consapevolezza, la stiamo generando - conclude Polleri -. Quando guardo dentro la sala da pranzo quel che più mi colpisce è la sorpresa dei commensali: la maggior parte di loro non sapeva neppure dove fosse il carcere. Ora ci torna con piacere. E con la certezza che qui si respira aria di libertà. È una rinascita doppia: dagli errori e dai pregiudizi”.