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di Stefania Spadoni

ilbullone.org, 21 febbraio 2023

Confronto nel terzo raggio del carcere milanese tra i cronisti del Bullone e i detenuti-giornalisti che scrivono su l’Oblò. La prima cosa che faccio quando entro in un carcere per incontrare i detenuti è guardarmi intorno. Osservo tutto. Sono una fotografa e sono abituata a vedere le cose. Dovrebbe essermi tutto estraneo, io non sono detenuta, la mattina mi sveglio e apro la porta per uscire di casa. Decido. Eppure, qualcosa mi parla di vicinanza.

Lascio questa sensazione per un attimo sedimentare e cammino. Un agente di polizia penitenziaria mi conduce cancello dopo cancello al centro dei bracci del carcere, che è costruito su un modello di architettura carceraria, chiamato Panopticon. Il panopticon è ideato per facilitare al massimo il controllo, permettendo a un unico sorvegliante di osservare tutti i soggetti di una istituzione carceraria, senza permettere a questi di capire se in quel momento siano controllati oppure no.

In questo carcere quell’architettura così formalmente composta, mi parla e mi racconta di come tutto possa essere abbracciato dall’occhio. Mi basta fare un giro su me stessa di 360 gradi per sentirmi come Argo Panoptes, il gigante dai cento occhi, raccontato nella mitologia greca come il miglior guardiano.

Inizio a pensare e a farmi domande. Basta davvero la consapevolezza che qualcuno potrebbe vederti per limitarti? Essere sorvegliati è già essere puniti? Che relazione c’è tra il soggetto che guarda il mondo e l’oggetto che viene guardato? Provo a rispondere a quest’ultima domanda, a darle un senso e credo di poterlo trovare nell’incontro.

Il senso dell’incontro - Oggi incontro i detenuti del III raggio, 4° piano, reparto “La Nave Asst Santi Paolo e Carlo” dentro la Casa Circondariale San Vittore di Milano, dedicato alla cura dei detenuti-pazienti dipendenti da sostanze (droghe e alcool). La prima cosa che vedo entrando in reparto è un cartello. C’è disegnato un ponte e due figure umane stilizzate, con due scritte: “detenuto e volontariato”. Nella parte alta del foglio, una scritta ben calcata e piena ART 17. L’art.17 dell’ordinamento penitenziario consente l’ingresso in carcere a tutti coloro che “avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”.

Oggi la redazione del Bullone incontra la redazione dell’Oblò, il mensile che raccoglie articoli e riflessioni dei detenuti ospitati al reparto “La Nave”. La parola “ospitati” la sento dire più volte qua dentro e mi suona strana, la leggo anche nelle due semplici righe che mi appaiono digitando su Google Oblò San Vittore. Ma è proprio in questa puntuale sfumatura lessicale che ritrovo il senso della riabilitazione. I detenuti che incontro oggi, che ascolto parlare nelle tre ore di permanenza con loro, che osservo anche attraverso la mia macchina fotografica, decidono di provare a riabilitarsi, decidono di far parte della Nave.

Lo fanno firmando un accordo, impegnandosi a rispettare, oltre le regole del sistema penitenziario, anche le regole del reparto. E qui, la prima regola è il confronto. Confronto e partecipazione sono un percorso verso la riabilitazione. Nelle lunghe tre ore insieme, me ne rendo conto, perché ascoltandoli leggere lettera dopo lettera, i loro articoli, non posso non vedere quanto la scrittura e la condivisione possa essere un’arma terapeutica fondamentale.

Prime volte - Oggi si parla di “prime volte”. Uno dei detenuti, Andrea, legge un racconto che ha scritto per il prossimo numero dell’Oblò. Racconta la sua prima volta con lei. “Sembrava quasi che ci conoscessimo”, “da allora non ti ho mai lasciato”, “tu che hai dato un senso alla mia vita”, “tutto era stupendo”, “pronto a tutto per averti”, “tu nei miei pensieri”, “tu che ci sei sempre stata”, “semplicemente noi”…

Ci metto un attimo a capire che quelle parole calde e sinuose, che sembrano dedicate a una donna, non sempre parlano di una donna. Lei, questa parola è una costante, e letta ad alta voce fa ancora più effetto. Molti detenuti parlano così di lei, la droga, la dipendenza, la malattia. La lettura è una continua dichiarazione d’amore e odio, una relazione sentimentale, la droga come una donna, la droga come un’amante, poi la vita con le persone reali si mischia fra le parole del racconto, c’è una donna, lei, ci sono i figli e la famiglia, lei, c’è il dolore, lei, torna, resiste, cade, lei, è un vortice, si perde.

Mi perdo anche io fra le parole di questi racconti. Non riesco più a vedere, ma sento tantissimo. Alcune voci continuano a leggere, l’emozione è altissima. Mi si forma un nodo in gola e penso che sia tutto un gran casino e che non me la sento di condannare nessuno. A volte la vita ti piega e lì c’è lei. Qualcuno si chiude in una camera di un motel con lei, per un’ultima folle disperata notte d’amore. Forse da qui arriva il termine “relazione tossica” che tanto va di moda oggi. È un continuo personificare la droga, l’unica amica, confidente, l’unico posto sicuro dove tornare, l’unico luogo senza dolore.

Storie di speranza - Torno a guardare, scatto una foto, ma sono troppo lontana e la macchina non vede quello che sento. Le voci si scambiano, ora qualche ragazzo del Bullone racconta la sua storia. Gli occhi di un detenuto si riempiono di lacrime, ascoltando le nostre prime volte. La prima volta che Saji ha detto grazie al suo donatore che morendo le ha dato una speranza. La prima volta di Antonio, una partita a calcio come portiere dopo l’operazione per un grave tumore al cervello, la tensione si lascia andare in risa ascoltando la forza di questo piccolo uomo che a fatica cammina, ma non vuole rinunciare a giocare a pallone.

Un senso di vicinanza - Poi le risa diventano applausi ascoltando la prima volta di Viviana che oggi è mamma dopo essere stata figlia con un’infanzia segnata dalla malattia. Tutto si mescola nell’incontro ed eccolo, quel senso di vicinanza che avevo lasciato sedimentare mentre camminavo dall’ingresso al centro dei sei raggi. Questo riesco ad afferrarlo, questo ha senso. Provo a ridefinire il carcere, anche se solo per una piccola fetta di persone. La riunione finisce e i detenuti ci invitano nelle loro celle. Vorrei fotografare tutto per non dimenticare, perché lo so che una volta là fuori le sensazioni svaniranno piano piano e l’indifferenza farà il suo sporco lavoro, ma è vietato. Sono l’unica persona qui dentro che può portarsi a casa piccoli pezzi di carcere chiusi nei frame delle mie fotografie.

Mentre mi avvicino a una cella in fondo al corridoio vedo alcune pagnotte appese a una delle porte blindate. Qui dentro tutto si mescola ancora, il pane con l’acciaio, i calzini con le pentole, il rimorso col coraggio.

“Mettersi nei panni dell’altro” l’ha letto ad alta voce Roger, un altro degli ospiti della Nave, il suo racconto parla di indifferenza, un’indifferenza raccontata con immagini potenti di una donna incontrata per strada, sporca, guance bagnate dalla solitudine, una voce esile, sottile, quasi soffocata che chiede aiuto, altre donne vestite a festa che le passano accanto, quasi calpestandola, il fango, la magrezza. La forza di non rimanere indifferente non lo fa drogare, almeno per una notte.

Un’aquila vola con le ali spiegate - Quando ci accompagnano all’uscita del reparto, non riesco a non sorridere fissando il mazzo di chiavi enormi, appese alla cintura dell’agente di polizia penitenziaria. Vorrei fotografarle, ma non posso. Sono davvero fuori misura, grandi e dorate, sembrano un qualsiasi props di un film fantasy, ma invece sono reali e mettono fine all’incontro. I detenuti-pazienti dentro e la società libera fuori. Scendo le scale e un’ultima immagine mi cattura. Un murales: il muro squarciato, un’aquila vola con le ali spiegate, libera.