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di Nina Verdelli

vanityfair.it, 3 aprile 2024

C’è una stanza, nel carcere di Opera, in cui avvengono due magie: i detenuti si trasformano in falegnami e i barconi dei migranti in strumenti musicali. Dopo averli sentiti suonare al Teatro alla Scala, siamo stati nel laboratorio di liuteria dove la disperazione diventa arte. In una stanza lunga, stretta e tutta azzurra che, se non fosse per le sbarre alle finestre, sembrerebbe la cameretta di Van Gogh, Levan e Nicolae siedono ricurvi al proprio tavolo; schiena contro schiena, occhi fissi su minuscoli ceselli con cui intagliano pezzi di legno colorati. Ogni tanto consultano un dettagliatissimo foglio di istruzioni, presumibilmente somigliante a quello che utilizzava Antonio Stradivari per capire, millimetro per millimetro, quanto scavare.

“Vedi?”, dice Levan, tuta grigia e sguardo acquoso, “non è semplice. I nostri violini sono diversi dagli strumenti classici: dobbiamo assemblare cinque pezzi anziché due, perché non vogliamo cancellare i colori delle barche”.

Le barche sono i barconi bianchi e blu, verdi e rossi con cui i migranti tentano la rotta del Mediterraneo. Pescherecci di fortuna pensati per pochi, collaudati da molti e poi abbandonati sulle sponde di Lampedusa. Qui, nel carcere milanese di Opera, ritrovano nuova vita. Vengono ripuliti di tutti gli oggetti che conservavano in stiva, dai numeri di telefono avvolti nel cellophane alle borse con pannolini e biberon. Ma la memoria del viaggio, quella resta: le assi diventano violini, e i ricordi musica.

L’idea è venuta ad Arnoldo Mosca Mondadori, filosofo, poeta e presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti: “Anni fa, a Lampedusa, ho visto un bambino di dieci anni scendere a piedi nudi da un gommone. Veniva da un viaggio di giorni. Mi sono chiesto: perché lui e non mio figlio? La stessa domanda vale per i carcerati: perché loro e non io? Se fossi nato nelle loro condizioni, magari avrei compiuto anche di peggio”. Da questi interrogativi nasce il progetto Metamorfosi, che trasforma le barche in strumenti e i detenuti in falegnami.

A guidarli, Enrico Allorto, 63 anni, mastro liutaio da 40. Ha cominciato a collaborare con il carcere di Opera nel 2012 e dal 2018 sta fisso nella stanzetta azzurra tre volte alla settimana. Perché? “Perché di fronte alle tragedie annunciate al tg mi sento impotente, qui invece mi sembra di fare un po’ di bene”. Mosca Mondadori lo paragona a Orfeo, che “scende negli inferi per aiutare gli altri a risalire”. In concreto, Allorto suddivide gli artigiani in due gruppi, chi è portato per i lavori di fatica smonta le barche, chi per i lavori di fino monta i violini. Insegna loro il mestiere. Dirime le liti: “C’è quello testone, quello che vuole fare tutto lui. Ti giri un attimo e si accende un diverbio”.

Ma, soprattutto, il mastro liutaio infonde speranza: “Dalle mani di persone che hanno sbagliato può nascere qualcosa di meraviglioso. E persino una cosa orrenda come la guerra può diventare un’opera d’arte. Picasso l’ha fatto con Guernica. Con le dovute distanze, noi lo facciamo con i violini del mare”. L’augurio di Mosca Mondadori è che questo messaggio voli attraverso le sbarre del carcere e arrivi a tutti: “Anche a chi, di solito, è a favore dell’inasprimento delle pene per i detenuti, o del respingimento dei migranti. La musica ha questo potere, è un linguaggio universale, non c’è destra o sinistra che tenga”.

La prima volta che gli strumenti del mare si sono fatti messaggeri di umanità è stata due mesi fa alla Scala di Milano, grazie anche al sostegno di Fondazione Santo Versace. Sul palco, musicisti di fama internazionale come il violoncellista Mario Brunello o il violinista Sergej Krylov. Nel palchetto d’onore, i liutai di Opera che, per l’occasione, hanno vestito l’abito bello e svestito la vergogna. “Non avrei mai creduto di potermi sedere in un posto dove di solito stanno solo i grandi”, racconta Nicolae, rumeno di 43 anni di cui gli ultimi otto passati dentro. “All’inizio ero a disagio per l’uomo che sono oggi, un carcerato. Poi la musica è partita e, per due ore, mi sono sentito importante. Ho cominciato a pensare: porca miseria, perché sono dovuto entrare in galera per imparare qualcosa? Perché non prima?”.

Il prima di Nicolae è fatto di una libertà indigente e di una famiglia con problemi: “Avevo sette anni quando mio padre è rimasto paralizzato. Dopo poco anche mia mamma si è ammalata. A 14 ho iniziato a lavorare in un cantiere navale in Romania. Poi ho trovato posto in una tipografia e infine come autista”. Dopo ancora, il periodo degli sbagli: “Uno quando ha la fame, parlando seriamente, che fa? Puoi resistere un giorno, due giorni, ma poi? In qualche modo devi mangiare. Io ho fatto degli errori, però lo giuro che non sono cattivo”. Stringe gli occhi neri fino quasi a farli scomparire, poi li abbassa: “Mi restano quattro anni qua dentro. La voglia di uscire è tanta. Ma tanta è anche la paura”. Paura di non trovare un posto nel mondo, di vivere con lo stigma del carcerato tatuato addosso: “Vorrei incontrare una ragazza, farmi una famiglia mia, capisci? Solo che credo che è un po’ difficile, no?, fidanzarsi con uno come me”.

Levan, invece, una famiglia già ce l’ha. Ad aspettarlo fuori ci sono una moglie, due figli e un desiderio: costruire un violino per il piccolo di cinque anni, e insegnargli a suonare. “Aveva sette mesi quando mi hanno arrestato”, racconta, “però è sempre stato moltissimo attaccato a me. Non ha mai smesso di cercarmi. Ogni volta che viene a colloquio mi dice: “Papà, torna da noi, guarda che la casa è buona”. Capito? Cerca di convincermi”. Non c’è bisogno, Levan ha le idee chiare. Appena otterrà il permesso, andrà a lavorare presso una falegnameria alle porte di Milano con cui la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti ha siglato un accordo. Qui i liutai di Opera avranno un contratto e un obbligo: una volta alla settimana dovranno tenere un corso a un gruppo di ragazzi in difficoltà. Insegneranno come si intaglia il legno e, magari, anche come ci si rialza dopo una caduta.

Io mi sto rialzando adesso, grazie a questo lavoro che, per me, è stato una specie di fisioterapia dell’anima”, continua Levan. “Avevo 12 anni quando è iniziata la guerra al mio Paese, la Georgia. Stavo andando a scuola e sono cominciati gli spari, i casini. È durata due anni, la guerra, e me la porto ancora dentro: il male non lo puoi cancellare. Prima provavo sempre a non pensarci. Ora, invece, mentre levigo il legno con cui altre persone sono scappate da altre guerre, non posso farne a meno. È strano: mi sono abituato a ricordare il dolore e il dolore un pochino è diminuito”.

Per Andrea, invece, maneggiare i barconi è come salire sulla macchina del tempo: “Anni fa lavoravo all’estero: Marocco, Tunisia... Quando vedo certi colori, sento certi odori, la mia memoria si riattiva e io torno indietro, all’uomo che ero, ai posti in cui sono stato”, racconta il 49enne bresciano, bianco di barba e di capelli, mentre incrocia le braccia forti sull’addome pronunciato. Poi, accenna un sorriso triste: “È un modo, questo, per viaggiare restando fermi”. L’unico per lui: Andrea, da Opera, non uscirà mai più. Potrà evadere solo con la mente, smontando le barche, studiando Psicologia (sta per concludere la laurea triennale), lavorando in biblioteca. “Quando la nave della tua vita affonda, o anneghi o nuoti. Se scegli di nuotare, devi capire come impiegare il tempo, per non buttarlo via, e per restare almeno minimamente centrato con la testa. La disperazione è sterile”.

Sterile forse, diffusa di sicuro. Il perché non è certo un mistero: secondo Associazione Antigone, nel 2023 il sovraffollamento delle carceri italiane ha superato il 125 per cento. Molti istituti, costruiti prima del 1950, rasentano la fatiscenza e, spesso, negano ai detenuti servizi di base come l’acqua calda (non garantita nel 60,5 per cento delle celle) o il riscaldamento (nel 10,5 per cento dei casi). Aggiungiamo la pressoché totale assenza di interventi mirati al reinserimento in società e vedremo spiegato l’elevato tasso di recidive, il 70 per cento secondo il Cnel. Il risultato: l’anno scorso, 68 detenuti si sono tolti la vita, uno ogni cinque giorni; nei primi tre mesi del 2024, i suicidi dietro le sbarre ammontano già a 27, l’ultimo settimana scorsa.

“La cosa più grande che manca qua dentro è l’affetto”, sintetizza Nicolae, richiudendo le spalle in avanti, quasi volesse proteggere il cuore. “È così difficile che, in certi giorni, arrivi al punto di parlare da solo. Ogni tanto mi chiedo: non è che sto impazzendo? Adesso, per esempio, sono due settimane che psicologicamente non sto bene. Non riesco a connettermi. Non riesco… non riesco… non so come definirla questa crisi. Io di solito sono uno abbastanza forte. Non piango mai per cose mie. Piango se vedo che stai male tu. Però, non so, ultimamente sono un po’ scombussolato”. Magari un po’ di depressione? “Ansia più che altro. E senso di vuoto. A volte mi sento talmente vuoto che, mentre cammino, mi do un pizzicotto. Così, solo per essere sicuro che ci sono ancora”.