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di Elisabetta Andreis

Corriere della Sera, 26 aprile 2024

Lunedì sono stati arrestati 13 agenti della Polizia penitenziaria per violenze sui giovani detenuti nel carcere minorile Beccaria; altri 8 agenti sono stati sospesi e ulteriori 4 indagati nell’ambito dell’inchiesta della Procura. “Un ragazzo era particolarmente irrequieto: è stato legato e pestato fino a massacrarlo di botte. Al mattino quasi non lo riconoscevo più... Le sue mezze confidenze sono state sufficienti: ho telefonato immediatamente alla famiglia, fuori da ogni protocollo ufficiale, e ho potuto parlare con il fratello, poi con la psicologa. Il ragazzo, con il nostro supporto, ha presentato denuncia”. Sarà stato un caso oppure no, ma “pochi giorni dopo era fuori, scarcerato, e aveva ritirato la denuncia.

Non l’ho più rivisto ma vorrei sapere come sta”. A parlare con il Corriere è un educatore che ha lavorato per anni al carcere minorile Beccaria, fino a poco tempo fa. Di notte oppure nei week end quando non c’erano educatori né volontari ma solo gli agenti poteva avvenire di tutto, e “frammenti di verità erano sotto gli occhi...”. Ovvero volti tumefatti, labbra sanguinanti, sguardi spaventati o completamente spenti per gli psicofarmaci: “A volte entravo nelle celle per mangiare sui letti con i ragazzi confinati in Infermeria, che non avevano il refettorio. Non avrei potuto fermarmi lì ma lo facevo, anche per parlare un po’ con loro. Ho anche formalmente chiesto alla direzione come era possibile trovare così spesso nelle celle sangue dappertutto... Non erano solo atti di autolesionismo, dalle mezze confidenze che mi facevano i ragazzi potevo intuire anche altro. Eppure dalla direzione mi sono sentito rispondere: “È più grave quello che fanno i ragazzi”.

Continua l’educatore: “Io penso ci fosse un sistema di potere che vedeva al centro una figura di vertice della polizia, attorniata da un gruppo di agenti che lo seguivano. L’idea di controllo e sicurezza comprendeva anche un certo “accordo” con i detenuti più forti che in qualche modo, in cambio di favori, contribuivano a calmare alcune situazioni; è breve il passaggio dallo spirito di corpo allo spirito di branco”.

Un lunedì mattina, nel 2022, l’educatore arriva al Beccaria. Lo chiama dalla cella un ragazzo straniero che era stato per mesi in Infermeria, “protetto” perché già preso di mira da altri detenuti per il tipo di reato di cui era accusato. L’educatore realizza che la sera del sabato improvvisamente era stato portato dagli agenti ai piani, dentro una cella. “Aveva la faccia livida e occhi che non dimenticherò mai. Non senza difficoltà ho trovato un luogo appartato dove parlare con lui, ma non sapeva l’italiano. Si è calato i pantaloni: aveva tumefazioni e segni inequivocabili, terribili... Io l’ho portato diretto dal medico, subito, ma sono stato poi redarguito molto pesantemente da alcuni agenti. Avrei dovuto fare prima “altri passaggi”, dicevano, e cioè sentire la loro versione, valutare il da farsi”.

Doveva forse stare zitto? La storia è poi emersa in tutta la sua gravità: quel ragazzo era stato torturato e violentato in modo raccapricciante per ore dai compagni di cella, di notte. “Chi ha deciso di metterlo lì, nella tana del lupo? E come è possibile che nessun agente in servizio abbia sentito le urla e sentito i rumori per un tempo così lungo?”. L’educatore riflette: “Noi educatori eravamo sottorganico, metà di quelli che dovevamo essere, e molti agenti non erano preparati a mettersi in relazione con i ragazzi, sapevano usare solo la forza muscolare (dal 2018 è stata interrotta la formazione specifica degli agenti per il settore minorile, ndr). Io credo di avere fatto il mio dovere, quando ho potuto, ho provato a fare emergere tutte le cose che non tornavano. Ma purtroppo non ci sono riuscito, non avevo la visione d’insieme”. L’ipotesi di un ruolo in qualche modo connivente di qualche educatrice non lo sorprende, “qualcuna ha rapporti molto stretti con gli agenti”. Il suo pensiero va però ai ragazzi: “Dicevano solo mezze parole, purtroppo. Forse subivano intimidazioni. O forse in un ambiente chiuso come il carcere dove tutti gli adolescenti - persino quelli che fanno i duri - si sentono sviliti, delle nullità, prevale l’idea contraria a qualunque logica rieducativa che subire violenza sia in qualche modo normale”.