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di Ilaria Carra

La Repubblica, 17 giugno 2023

L’istituto ospita mamme detenute con i loro figli fino a dieci anni: offre ai piccoli una vita simile alla normalità e alle donne una chance di riscatto. Jana è appena rientrata da un’udienza, l’ha scortata avanti e indietro il blindato della Penitenziaria. Il doppio cancello si è aperto piano, e poi si è richiuso subito. Suo figlio è nel passeggino, ha sei mesi, stamattina è agitato, piange un po’ ma poi si dà pace. Lo chiamano Pasqualino, in istituto, una stortura molto affettuosa, troppo complicato come si chiama all’anagrafe e qui i nomi propri si pronunciano in continuazione. Appena tornata Jana lo culla un po’, poi si mette subito in cucina al lavoro. Oggi merluzzo, “l’ho fatto nella stagnola con le olive e un po’ d’aglio”.

Maria ha 41 anni, è campana ma vive al Nord da tempo. Ha altri tre figli, che vengono a trovarla regolarmente, nei weekend. È già nonna, di una bimba di 4 mesi. Qui con lei vive l’ultima, 3 anni a luglio. Sono state separate per sei mesi, quando lei era in carcere, 36 mesi di pena da scontare. “Avevo le foto dei miei figli appese sul muro della cella, a un certo punto le ho staccate, era troppo il dolore della separazione” dice oggi. Da agosto si sono ritrovate qui, assieme.

Qui è l’Icam, l’istituto di custodia attenuata per detenute che sono anche madri di bambini, fino a dieci anni per le condannate in via definitiva (sei se in via cautelare). Una grande casa d’epoca a piano terra come ce ne sono tante a Milano, di fine Ottocento, proprio di fronte alla Macedonio Melloni che è anche pronto soccorso pediatrico. Una casa che è un carcere a tutti gli effetti, solo in regime attenuato, più che altro per i bambini che vivono qui con le mamme detenute. Sbarre alle finestre ma più larghe di una cella, agenti in borghese, la notte le camere non sono chiuse a chiave ma c’è sempre un agente di custodia di turno che gira a sorvegliare, il giardino è pieno di scivoli e tricicli ma ha cancelli chiusi automatizzati e alte palizzate di plexiglas.

È un distaccamento di San Vittore, e quindi dipende sempre dalla direzione di Giacinto Siciliano, ma è l’unica struttura di questo tipo in Italia fuori dal perimetro del carcere. Significa che in giardino e dalle finestre senti la gente che passa, i clacson, le voci, e aiuta a non alienarti. Resta il fatto che da qui, se non per un’udienza o casi eccezionali e comunque sempre scortate, le donne non possono uscire.

Si batté molto nel 2006 per far nascere questa struttura, in versione pilota, Luigi Pagano, già direttore di San Vittore e poi provveditore delle carceri lombarde. Perché - era l’ambizione - ne nascessero altre così, in sostituzione dei nidi per le madri detenute dentro alle carceri. Ma l’Icam di via Melloni resta un unicum. E tuttora, raccontano le detenute, è una realtà che si conosce poco dietro le sbarre, anche per chi potrebbe provare a beneficiarne.

Oggi ci sono quattro madri detenute qui, se ne aspetta una quinta. Rapine e furti, specie borseggi, i reati più comuni. Tutte hanno figli con meno di 5 anni. Maria è l’unica italiana. I bambini alla mattina vengono portati a scuola dagli educatori, vanno a piedi o con i mezzi. Si cerca di farli vivere il più possibile normalmente. Che non significa mentire. “Mia figlia sa che io non posso uscire di qui - dice Maria - mi chiede spesso: “Mamma vieni anche tu stamattina?” E io le dico che non posso uscire e lei sa che la aspetto qui. È troppo piccola per capire bene perché non posso uscire. Mentre ero in carcere lei stava con mia cognata e chiamava mamma tutte le donne che le stavano vicino, mi cercava, cercava me in loro. Io ho sbagliato, sto elaborando, so che sono una detenuta fortunata perché ho la possibilità di stare con mia figlia tutto il giorno e di mettere le basi per uscire di qui con un lavoro, una consapevolezza e di andarmene con qualcosa in più rispetto a quando sono entrata”. Solo agli inizi, racconta chi lo gestisce, ci sono stati tentativi di fuga, in rari casi riusciti, ma nel tempo il tasso di evasione è praticamente sceso a zero.

La struttura è pensata molto per i figli, perché la detenzione delle madri abbia un impatto attenuato sulle loro vite. “Io sono una detenuta, non me lo dimentico, ma so anche che questo è un posto dove ti viene offerto un aiuto e devi essere disposta a coglierlo”. Che vuol dire mettersi in discussione, elaborare gli errori, riflettere sul futuro. E impegnarsi. C’è tutto, qui dentro. La portineria, la sartoria dove ogni giorno si impara l’uncinetto e si dà vita a stoffe nuove che arrivano da fuori. “È qui la festa” è scritto a pennarello sopra la porta della ludoteca, c’è la biblioteca, l’infermeria, le stanze di ognuna, letto e lettino di fianco. “Non è il paradiso qui e nessuno vuole far passare questo messaggio. Ma è un posto che dà alle detenute un’opportunità che va colta e questo dipende da loro” dice la coordinatrice di Icam, Marianna Grimaldi.

A sorvegliare ci sono sette agenti uomini e sette donne, più il caporeparto. Le mamme lavorano. Ci sono i turni in cucina, al casellario, in lavanderia, per le pulizie, ognuna ha la sua mansione che cambia a rotazione di due settimane. Ed è regolata da un contratto, pagato, con ferie, festivi, malattie, straordinari se fatti. In cucina sono quattro ore al giorno, due a pranzo e due a cena. Poi sono due le ore per rigovernare i locali, buttare la spazzatura, lavare gli stracci e pulire le scope. Il ministero garantisce a queste donne il mantenimento di base, poi con i propri soldi ogni venerdì ognuna può chiedere prodotti extra. Sigarette (tante), riviste, il gorgonzola, le cozze. Alcol zero, non si può. Un bicchiere solo a Natale, quando si brinda tutti assieme, detenute, agenti ed educatori. “Si lavora ma le donne qui spesso imparano anche a stare con i loro figli, a partire dalle basi pratiche fino a recuperare il loro ruolo di madri” aggiunge Grimaldi.

Le pareti sono colorate a tinte pastello e sono tappezzate di quadri quasi tutti opera di chi è passato di qui. Ci sono i ritratti che ha fatto una detenuta, ribattezzata Bobby, la sua lunga chioma nera e suo figlio, anche lui dal nome abbreviato e cambiato in Diego. Vengono chiamati per nome, gli agenti. “È diverso qui rispetto al carcere, anche per noi, c’è una condivisione più diretta, per forza, devi essere portato e pronto, non sempre è facile in borghese far capire il nostro ruolo, è un lavoro quotidiano, costante” dice una giovane agente, arrivata da poco ma già ben inserita. E Maria specifica subito che “questo non vuol dire che io non sappia chi sono, il loro ruolo. Serve rispetto, che è la base”. Nel suo futuro imminente Maria potrà andare in una casa famiglia, a finire di scontare la sua pena ai domiciliari e con un lavoro. “Tra le due strutture siamo in coordinamento costante - precisa Grimaldi - lavoriamo assieme affinché le detenute, se ne hanno l’opportunità, arrivino preparate e in grado di reggere la vita nella casa famiglia”. E Maria questo l’ha capito: “So che dipende da me farcela e ce la metterò tutta”.