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di Franca Berto

Corriere di Verona, 30 agosto 2023

Franca Berto, la moglie di Massimo Zen - la guardia giurata padovana arrestata per aver ucciso un ladro in fuga racconta le condizioni di vita in carcere del marito e degli altri detenuti, e svela che Zen è stato recluso nella stessa prigione in cui si trovano alcuni parenti della vittima. La lettera denuncia anche le condizioni in cui i familiari devono far visita ai detenuti, e si traduce in un appello a Nordio.

Mi chiamo Franca Berto e sono la compagna di Massimo Zen ex guardia giurata che all’alba del 22 aprile 2017 uccise il giostraio Manuel Major che con due complici stava fuggendo dopo aver piazzato quattro colpi ai bancomat del territorio ed è stato condannato a nove anni e sei mesi per omicidio volontario. Dopo la sentenza della Cassazione è entrato in carcere a Padova il 16 giugno 2023 e successivamente trasferito per motivi di sicurezza, in quanto nello stesso carcere sono detenuti molti parenti del defunto, alla Casa Circondariale di Verona Montorio.

In questi mesi di frequentazione settimanale per i colloqui ho raccolto uno spaccato di vita raccapricciante dai racconti e resoconti sulla quotidianità dentro le mura. Non voglio assolutamente entrare nel merito della decisione sulla condanna, ma la mia vuole essere una lettera di denuncia sulla base di questa testimonianza e su quanto ho potuto vedere sulla situazione igienico-sanitaria e psicologica in cui i detenuti sono costretti a vivere in questo carcere, e su come vengono trattati i famigliari che accedono ai colloqui. Voglio essere la compagna, la moglie, la madre, la figlia, la sorella di qualunque detenuto che non ha voce per raccontare la quotidianità vissuta in maniera deprecabile. In questa torrida estate dove si raccomandava di stare in casa al fresco o di andare nei centri commerciali per usufruire dell’aria condizionata, più di 500 detenuti (contro una capienza prevista di 335 persone) sono stati costretti a vivere in celle super-affollate senza possibilità di refrigerio, neanche un misero ventilatore, e che aspettano l’ora dei colloqui settimanali per accedere a locali climatizzati. L’ora d’aria la passano in un cortile di cemento nelle ore più calde dov’è inumano resistere. Per non parlare poi delle docce comuni: fatiscenti, sporche, scrostate senza manopole o miscelatori, da dove se va bene esce solo acqua fredda, sempre che non venga addirittura chiusa per razionamento! Costretti a lavarsi semi-vestiti per non rischiare di prendere qualche fungo o il tetano, e lavare così anche i vestiti.

Il sovraffollamento inoltre genera continui litigi e sono all’ordine del giorno accoltellamenti, incendi di materassi per protesta, aggressioni a guardie che sono carenti per poter garantire un minimo di sicurezza. E tutto ciò è da imputare a una politica dei tagli dei costi a scapito di una qualità di vita dei detenuti e di sicurezza di chi ci lavora. E che dire dello spauracchio per l’arrivo del prossimo inverno dove chi lo ha già vissuto in carcere racconta di notti passate con il berretto in testa, due maglioni e la coperta, in una cella simile a un frigo.

Parliamo poi della fantomatica “riabilitazione”. Un parolone che riempie solo le bocche di certi politici ma che, tradotta in realtà, per questo carcere si tratta per pochi di accedere a percorsi scolastici durante l’anno, ma che nel periodo estivo si traduce in una assurda ricerca di come far passare il tanto tempo a disposizione.

Riuscire a tenere la testa salda, scarseggiando anche i supporti psicologici, non è cosa facile e la dimostrazione sono i suicidi e tentati suicidi che sono più frequenti di quel che si pensa, perché a volte le notizie non trapelano. Se le persone non vengono tenute occupate con percorsi riabilitativi seri e tutto l’anno, se non viene dato un valido e costante appoggio psicologico e se le condizioni di vita all’interno non sono “umane”, si palesa una istigazione al suicidio subdola ma purtroppo realistica. Vivere per anni in questa situazione disumana non è possibile. Ci inorridisce l’America che in molti Stati applica la pena di morte, ma vivere in carceri così mal strutturate e al limite della decenza è un lento morire.

E vogliamo parlare del cibo che i più sono costretti a comprarsi nella nota spesa settimanale per integrare i menù poco vari e soprattutto per l’assenza del carrello-pasti la sera della domenica e nelle sere delle varie festività, ad esempio ferragosto. E comunque, i cibi che si possono portare dall’esterno sono pochi e la loro esclusione è sovente motivata non da ragioni di sicurezza ma perché gli stessi prodotti vengono venduti all’interno del carcere, e quindi i detenuti se li devono acquistare magari a prezzi più elevati. Ma se il familiare, per ragioni economiche, volesse comperare i prodotti a un discount a prezzo ridotto, deve sborsare più soldi in nome di che cosa? E comunque i prezzi dei prodotti dovrebbero essere adeguati e non maggiorati!

Parliamo poi del trattamento riservato ai parenti in visita? Capisco la difficoltà di relazionarsi con persone di culture, ceti, istruzione e livelli di comprensione diversi, ma alla base manca una formazione adeguata del personale e, soprattutto, una carenza dello stesso. Non tutti quelli che arrivano a dover entrare in quel mondo sono, solo per il fatto di avere un familiare detenuto, dei “delinquenti”. L’empatia è alla base di chi deve, per lavoro, relazionarsi con il sociale, ma questo sarebbe chiedere troppo a un sistema che è rimasto punitivo e non riabilitativo. Se già solo con i familiari vengono usati metodi poco esplicativi, come si può essere pronti ad avere una visione di recupero del detenuto in quanto “persona” e non “reato”? Quando arriviamo in carcere, anche noi parenti perdiamo la nostra personalità, perché non veniamo più chiamati con il nostro nome ma con il nome del detenuto.

Per non parlare delle deprecabili condizioni dei bagni della sala d’attesa per i parenti, gli unici servizi igienici di cui si può usufruire nell’attesa di andare al colloquio. Se proprio bisogna, si va a proprio rischio: sporchi lerci e senza carta e sapone per lavarsi le mani, ma tutto questo non viene mai denunciato sia per paura di ritorsioni interne al proprio caro, sia perché poi la volta successiva magari non ti fanno passare delle cose che devi consegnare al tuo familiare. Ma soprattutto perché la voce degli “emarginati” difficilmente viene ascoltata.

Ci preoccupiamo del benessere psico-fisico degli immigrati perché visibili agli occhi dell’opinione pubblica e interessanti dal punto di vista economico, ma dei reclusi che non hanno voce chi si preoccupa?

E carissimo ministro Nordio, lei che pensa a tante soluzioni per il sovraffollamento, non troverebbe semplice e risolutivo far espiare delle pene alternative a quei detenuti che sono alla prima condanna e non pericolosi, che hanno una residenza e una famiglia funzionale dove rientrare, e per i quali i Comuni sarebbero disposti a farsi da garante per far scontare loro delle misure cautelari diverse al carcere? Forse costa meno un braccialetto elettronico (se proprio ritenuto indispensabile), che il costo del mantenimento di un carcere. (...) Ma la domanda che faccio al nostro guardasigilli è: come mai c’è tanta attenzione per persone pericolosissime e condannate al carcere duro, e invece c’è menefreghismo davanti a tutti gli altri condannati per reati minori che vivono in condizioni disumane?