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di Desirè Vasta

Il Riformista, 6 agosto 2022

La vicenda di un’imprenditrice in Sicilia raccontata in un libro. Ho voluto raccontare in un romanzo la mia vita e quella della mia famiglia per liberarmi da un peso, riscattarmi dal passato e, chissà, magari scuotere le coscienze di persone, come i magistrati, che hanno un potere eccezionale: quello di riparare al torto e decidere di compiere un atto di giustizia. Sì, perché io credo fortemente nella Giustizia; d’altronde se non ci avessi creduto fino in fondo, oggi, farei un altro lavoro. Con questo mio libro, che si intitola A testa alta, voglio anche trasmettere un messaggio di forza, di coraggio e di speranza a tutti quegli imprenditori che si trovano ad affrontare una situazione simile alla mia. La mia esperienza può servire anche a loro. Mettere nero su bianco ciò che mi è accaduto nella vita mi ha aiutato a comprendere meglio e ad affrontare le mie paure. Con questo libro ho avviato un percorso introspettivo che per me è stato fondamentale anche per superare i drammi che ho vissuto e gettarmi il dolore alle spalle.

Non ho nulla contro la magistratura. Penso semplicemente che sia il sistema a essere sbagliato. Un sistema che su molti imprenditori ha avuto pesanti conseguenze, non solo per le loro aziende, ma anche, soprattutto, nella loro vita privata e familiare. Parliamo di persone che con sacrificio e impegno si sono totalmente dedicate alla loro impresa e, dopo esserci riuscite, hanno fatto di essa l’orgoglio della propria vita. Perché fare attività economica è un gesto eroico, soprattutto in Sicilia. Ed è una grande soddisfazione quando si riesce a garantire un futuro diverso ai propri figli e un impiego solido ai propri dipendenti che a loro volta sono padri di famiglia.

Ho deciso, non senza difficoltà, di parlare apertamente di avvenimenti dolorosi. Racconto, in primo luogo, della mafia e di come essa ai tempi ha colpito mio padre con intimidazioni pesanti. Ma parlo anche del lato oscuro dell’antimafia e di come essa sia riuscita a svilire anni di sacrifici e di duro lavoro. Dico ovviamente quanto abbiamo sofferto io e la mia famiglia che lo Stato ha tentato ingiustamente di dividere, mettendo una parte di essa contro l’altra. Dopo una ingiusta detenzione di mio padre, come tale riconosciuta dallo stesso Stato italiano, abbiamo cercato di riprendere in mano la nostra vita sia a livello familiare che economico. Nonostante gli innumerevoli ostacoli frapposti sulla strada della mia azienda, sono riuscita a crearmi una realtà imprenditoriale discreta. Ma non posso permettere a nessuno di diffamare, ancora oggi, il nome della mia famiglia con accuse senza fondamento di giudizio. Pregiudizi, solo pregiudizi, che si trasformano in asfissianti preclusioni, interdittive al lavoro onesto.

La mia impresa ha dovuto fare i conti con quelle che, con sentenze passate in giudicato, si sono rivelate accuse prive di prova rivolte a mio padre. Ma la certificazione giudiziaria della sua innocenza non basta a rendere libera la mia attività. È paradossale e ingiusto che io debba pagare un “fine pena mai” per un errore giudiziario - sentenziato in via definitiva dallo Stato - di cui mio padre è stato vittima. Ma mentre mio padre è stato vittima conclamata di estorsioni mafiose, io, sua figlia, sono interdetta da misure cosiddette antimafia. Capite bene allora che qualcosa non va nel sistema in cui mi sono, mio malgrado, ritrovata.

Io vedo - e ne sono felice - parenti di un tempo capi mafia oggi non più in vita che ricoprono incarichi di prestigio nei comuni, che gestiscono appalti e somme pubbliche di enorme rilievo o che concorrono alle elezioni regionali. È giusto, è sacrosanto che sia così - lo ripeto: ne sono felice - perché nel nostro sistema penale non è scritto da nessuna parte che figli o nipoti debbano pagare gli errori di padri, nonni o zii. Ma questa regola - giusta, umana, civile - vale solo nel sistema penale antimafia? Il sistema di cosiddetta prevenzione antimafia è un mondo a parte? Per gli imprenditori che hanno avuto successo in terra di mafia vige un’altra legge: quella del sospetto?

Come nel mio caso, la stortura è evidente: un’impresa creata da una ragazza, figlia di un imprenditore assolto da ogni accusa penale di mafia, sconta per via amministrativa un pregiudizio antimafia, paga a caro prezzo un discredito fondato sul dubbio inesistente. Non mi arrendo a questo stato di cose. Qualcuno mi dovrà spiegare come e perché io, figlia di un soggetto assolto da accuse di mafia, non posso fare impresa, non sono degna della fiducia da parte dello Stato.