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di Dario Crippa

Il Giorno, 6 ottobre 2023

L’intervista a Cosima Buccoliero, nuova direttrice della casa circondariale: “Un’occupazione fa bene a tutti, parlerò con Afol e Provincia per portare i lavori all’esterno”. Una nuova possibilità. Ci sono persone che non hanno una famiglia, che non hanno un punto di riferimento, che se avessero avuto un’altra possibilità forse non sarebbero in carcere. Ne è convinta Cosima Buccoliero, 55 anni, salentina di origine, che dallo scorso maggio ha lasciato il carcere di Torino per venire a dirigere la casa circondariale di via Sanquirico a Monza.

Lo ha chiesto lei. E il suo curriculum è tutto tranne che una banale elenco di titoli. Già direttrice anche al penitenziario di Opera, Ambrogino d’Oro, giurista, e ha fatto dell’umanizzazione della pena il suo stile di vita. Ferma e determinata, è stata fra le altre cose una delle protagoniste della rivoluzione del carcere di Bollate, il penitenziario modello che ha fatto scuola, dove ai detenuti viene offerta un’altra chance. Ha diretto e continua a dirigere il carcere minorile Beccaria di Milano. Sa cosa significhi guardare in faccia un detenuto e considerarlo prima di tutto una persona. Senza nascondere i problemi di un sistema che, spesso, fa acqua da tutte le parti.

Sovraffollamento: com’è la situazione a Monza?

“Ci sono attualmente 690 detenuti, la scorsa estate abbiamo raggiunto anche punte di 720 nonostante la capienza sia di 408 posti. In pratica, ci sono 300 persone in più del dovuto”.

Importerà il sistema Bollate?

“Non è possibile replicarlo in toto, a Monza la situazione è completamente diversa. A livello di spazi e come detenuti. A Bollate ci sono detenuti stanziali, qui ci sono detenuti che hanno pene meno lunghe, e molti che hanno avuto una revoca delle pene alternative. E non possono quindi più beneficiarne”.

Però...

“L’esperienza a Bollate mi ha insegnato che le cose si possono fare. Bisogna investire sul trattamento dei detenuti, l’umanizzazione della pena rende, il lavoro dimostra che in determinanti contesti porta vantaggi per tutti”.

Cosa si può fare a Monza?

“C’è un territorio fertile in Brianza. I detenuti devono avere opportunità: ci sono un orto, una serra, un laboratorio di falegnameria… L’ideale sarebbe sviluppare queste possibilità aprendosi al territorio. Quando si coltiva un orto, ad esempio, bisogna trovare un modo per utilizzare i prodotti che si sono fatti crescere: l’autoconsumo non basta, bisogna poter vendere all’esterno i prodotti. Alcuni detenuti si sono appena autotassati per acquistare le sementi, l’ideale sarebbe diventare autosufficienti e stare sul mercato. Abbiamo appena fatto delle fioriere per il Comune di Villasanta. Servirebbe una vetrina con i prodotti del carcere, come a Milano o a Torino. E un imprenditore ci ha appena offerto una commessa importante: vorrebbe che aprissimo un laboratorio di assemblaggio per fare spazzolini da denti. Discuterò di idee come questa con la Provincia e con Afol (Agenzia per la Formazione, l’Orientamento e il Lavoro). Quando ho chiesto di venire a Monza sapevo che c’era un humus fertile”.

Ci sono anche problemi. Lo scorso anno ci sono stati parecchi guai con i detenuti psichiatrici, rivolte e aggressioni...

“Monza è sede di “Articolazione per la tutela della salute mentale dei detenuti” e quindi ci vengono mandati parecchi detenuti con problemi psichiatrici. Abbiamo 4 sezioni”.

Quanti sono?

“Quelli certificati 200. Non è semplice gestirli”.

E ci sono i tossicodipendenti...

“Sono 350, avrebbero bisogno di una comunità, ma trovarle è difficile: nessuno vuole un detenuto fra i propri pazienti. Ci arrangiamo con il nostro SerD (Servizio per le Dipendenze) interno”.

Quante persone?

“Sette o otto fra medici, assistenti sociali, psicologi, volontari”.

Troppo poco. E gli stranieri?

“Sono il 50 per cento della popolazione carceraria, i nuovi arrivi rispettano queste proporzioni”.

Difficoltà?

“Da un anno e mezzo circa il problema sta diventando la lingua. Parecchi di questi detenuti arrivano in Italia di passaggio, diretti ad altri Paesi d’Europa. Non parlano la nostra lingua e non sono interessati a farlo. Vorrebbero solo proseguire nel loro viaggio. E i mediatori culturali mancano: i bandi che sono stati fatti per trovarli continuano ad andare deserti: è un lavoro che non vuole fare nessuno, per il livello della retribuzione e la tipologia di contatto. Non poter comunicare è diventato un problema”.