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di Luigi Manconi

La Repubblica, 8 febbraio 2024

Durante la notte del 5 gennaio scorso un detenuto è stato prelevato dalla sua cella nel carcere di Cagliari-Uta ed è stato tradotto al Pagliarelli di Palermo. Istituto penitenziario, quest’ultimo, dotato della sezione Alta sicurezza 3, riservata agli accusati di reati di stampo mafioso, traffico di droga e sequestro di persona. Nel caso di Tomaso Cocco, primario del reparto di Terapia del dolore dell’ospedale Binaghi di Cagliari, i giudici del tribunale del Riesame avevano escluso la sussistenza del reato di associazione di tipo mafioso e di associazione segreta. Il detenuto, coinvolto in una inchiesta sui rapporti illeciti tra criminalità organizzata e “colletti bianchi”, subisce da mesi una detenzione che nei fatti ignora la sentenza dei giudici del Riesame.

Cocco, infatti, è sottoposto al regime carcerario di Alta sicurezza, previsto per quelle imputazioni già dichiarate insussistenti, e a tutte le restrizioni che ne conseguono.

Le legali del detenuto, Herica Dessì e Rosaria Manconi, hanno affermato che Cocco è stato collocato “in una cella di pochi metri quadrati, ubicata al piano seminterrato della struttura penitenziaria di Palermo, priva di luce diretta, presente solo una piccola “bocca di lupo”, umida, insalubre, senza riscaldamento e acqua calda. Non ha potuto lavarsi per diversi giorni subendo un’ulteriore umiliazione e un trattamento degradante. Non gli è consentito di usufruire dell’ora d’aria, di leggere, di cucinare, di fare esercizio fisico”.

Oltre a evidenziare l’iniquità di sottoporre il detenuto a un regime di Alta sicurezza dopo che i giudici hanno escluso la sua appartenenza alla criminalità organizzata, ciò che emerge è il tema dell’inutile e crudele afflizione. La pena, per come è ispirata e normata dalla Costituzione, deve rispettare la dignità dell’individuo in quanto persona affidata alla custodia dello Stato. Tutte le altre pene, che mirino a umiliare, degradare e, infine, annientare l’uomo detenuto, sono anticostituzionali e illegali. Nelle carceri italiane questo secondo tipo di pena conosce un’ampia applicazione. Le legali del primario hanno il serio timore che possa capitargli qualcosa di imprevedibile, che il suo corpo e la sua mente smettano di reggere quelle condizioni. Ma non è troppo tardi per intervenire affinché non accada ancora un’altra di quelle tragedie che il ministro della Giustizia definisce “inevitabili morti”.