di Susanna Marietti*
Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2024
È agghiacciante, è tragico, è sconcertante, è annichilente: un ragazzino di appena diciotto anni è morto carbonizzato nella sua cella, la definitiva prigione dalla quale non è potuto uscire in tempo. È successo nel carcere milanese di San Vittore. Le fiamme che sono divampate e hanno avvolto l’intera stanza erano state probabilmente appiccate da lui stesso. Gli operatori del carcere non sono arrivati in tempo per liberare dal rogo Loka Moktar Joussef Baron, giovanissimo di origini egiziane. Il compagno di cella per fortuna è stato tratto in salvo. Capiremo nelle prossime ore come si sono svolti gli accadimenti, se sia stato un tentativo di suicidio o, come pare più probabile, un gesto estremo di richiesta di ascolto.
Capiremo chi era Loka Moktar, che storia di vita aveva alle spalle e quale storia giudiziaria. Sappiamo che era in carcere per reati contro il patrimonio dallo scorso luglio in attesa di giudizio (che una diversa soluzione per far attendere il processo a un ragazzino diciottenne non si fosse trovata la dice già lunga). Capiremo il resto, ma sappiamo già adesso che la tragedia occorsa ci parla in maniera esemplare del dramma delle nostre carceri e di tante, troppe persone che stiamo mandando al macero.
A San Vittore ci sono 1.100 persone detenute per 750 posti letto ufficiali. Le carceri italiane ospitano nel complesso 61.758 persone. La capienza dichiarata è di 50.911 posti, ma la realtà ci dice che varie migliaia sono inutilizzabili a causa di mancate ristrutturazioni che nel tempo ne hanno determinato l’inagibilità. In questo stato di affollamento, i poliziotti penitenziari e gli altri operatori non sono in grado di intercettare le esigenze di chi recludono, né di aprire in tempo una porta che può salvare una vita. Visti i numeri, gli istituti non riescono quasi mai a garantire uno spazio separato per i giovani adulti, come le norme prevedrebbero, all’interno del quale una specifica attenzione a questa critica fascia di età possa essere riservata. I detenuti si suicidano: lo hanno fatto in 70 dall’inizio del 2024. Nessuno poteva salvarli perché nessuno era in grado di ascoltarli e di intercettarne le disperazioni. I detenuti protestano: accade sempre più spesso, nelle carceri per adulti e in quelle per minori. E il sistema, invece di tentare l’ascolto, si chiude ancora di più.
La questione nasce a monte: se si ritiene che ogni problema sociale vada risolto con il carcere, se si ritiene che la reazione a chiunque commetta uno sbaglio debba sempre e comunque essere il pugno di ferro, se si ritiene - come il governo ha dimostrato di fare con l’emanazione del cosiddetto Decreto Caivano - che anche ai più giovani bisogna rispondere con la mera repressione punitiva, senza aprire un dialogo di tipo educativo e senza cercar di comprendere e prevenire le ragioni dei comportamenti, allora il risultato sarà sempre, sul piano della quantità, un carcere che scoppia e, sul piano della qualità, un carcere pieno di marginalità sociale, di povertà economica e culturale, di disagio psichiatrico, di tossicodipendenza.
Oggi anche le carceri minorili sono, per la prima volta nella storia, sovraffollate. Quelle carceri dove Loka Moktar sarebbe andato se solo avesse compiuto il presunto reato poche settimane prima, quando ancora non aveva compiuto la maggiore età. Al loro interno non ci troviamo i ragazzi più criminali o i più pericolosi. Ci troviamo piuttosto i più marginali, quelli per i quali il sistema non è stato capace trovare soluzioni alternative. Perché non hanno una casa, perché le comunità non li vogliono, perché non hanno alcuna rete sul territorio. Moltissimi sono stranieri minori non accompagnati, che con un’accoglienza esterna estremamente insufficiente si ritrovano a vivere per strada. Invece di sostenerli nel loro difficilissimo percorso di vita, non troviamo nulla di meglio da fare che mandarli in galera.
Questa umanità abbandonata ci sta chiedendo, oggi come non mai, di essere ascoltata. Le proteste sono all’ordine del giorno. Mai a nessuna di esse, neanche la più pacifica, il governo ha risposto con un’apertura al dialogo. Nel crescendo di proteste non violente che c’è stato negli ultimi mesi, nessuno ha manifestato la volontà di comprendere il messaggio lanciato dai detenuti. Nessuno ha ascoltato. E in carcere non si hanno molti strumenti per farsi ascoltare. Molti hanno a che fare con il proprio corpo. Si è disposti a tutto, quell’ascolto è troppo importante per qualsiasi essere umano. Allora si fa lo sciopero della fame, ci si taglia, si ingoiano le lamette. Oppure si dà fuoco a una cella, ben sapendo che una delle possibilità è quella che il blindato non venga aperto in tempo.
*Coordinatrice dell’Associazione Antigone