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di Barbara Marengo

ytali.com, 11 settembre 2023

Paolo Aleotti è entrato nel carcere di Bollate. I detenuti gli hanno raccontato le loro storie, le loro riflessioni, le loro aspirazioni. Il risultato è un libro molto bello e istruttivo: “Che sapore hanno i muri”. Un sapore amaro, fatto di solitudine e smarrimento, ma anche di speranza ed opportunità, racchiuso assieme a mille sfaccettature nelle “lettere dal carcere” raccolte da Paolo Aleotti, giornalista di lungo corso, nel volume Che sapore hanno i muri (CasaSirio editore): decine di testimonianze raccontate da chi vive in regime di detenzione e eseguite dagli stessi detenuti e detenute. Uomini e donne carcerati che sono stati coinvolti dall’autore in una serie di iniziative, laboratori e interviste nel carcere di Bollate, che rappresentano uno spaccato umanamente potente sulla vita all’interno delle prigioni.

“Aleotti è riuscito a scrivere di ciò di cui più spesso si tace”, afferma Luigi Manconi che con Marica Fantauzzi ha curato la prefazione del volume, in un confronto continuo tra la vita “dentro” e “fuori” tramite testimonianze dirette e spontanee. Il carcere di Bollate a Milano rappresenta un esempio all’avanguardia nel panorama carcerario italiano degli oltre duecento istituti detentivi dove sovraffollamento e disagio caratterizzano la vita dei detenuti. Iniziative che hanno portato l’autore a lavorare per mesi all’interno del carcere grazie all’intervento dell’associazione Antigone, da anni in prima linea a tutela dei diritti dei detenuti.

Un viaggio all’interno del carcere, un mondo che visto da fuori rappresenta angoscia e castigo, svolto attraverso interviste e riprese televisive dai detenuti stessi, che mostrano e descrivono le differenti strutture del carcere, dalle attrezzature sportive alla scuola, dal cinema, la mensa, il ristorante, la sezione degli educatori, non certo un mondo libero e parallelo a quello esterno ma un luogo dove i detenuti vivono con dignità un percorso di riabilitazione prendendone coscienza. Marco, Giovanni, Alvaro, Gennaro, Marina, Simona, Ilinka, Celeste, si raccontano e s’intervistano reciprocamente narrando le loro vite “prima”, vite segnate da droga, rapine, spaccio, nomadismo e furti, delitti e reati di ogni tipo, ed alcuni affermano che tale carcerazione dopo la condanna è “opportunità per farci cambiare scala dei valori”, quando non perfino “libertà” acquistata dentro al carcere, dove il modello Bollate può essere vincente e d’esempio per riacquistare coscienza e ripagare il reato commesso.

Non è, tale carcere, un villaggio vacanze: è un microcosmo sorvegliato dove anche il personale è però più rilassato, e se i detenuti possono coltivare l’orto, leggere e studiare, questo serve “a rinforzarsi” per affrontare il mondo fuori una volta scontata la pena. Un “fuori” che per molti, che usufruiscono di permessi lavoro all’esterno grazie all’articolo 21 della legge sull’ordinamento carcerario, rappresenta insicurezza, paura e incertezza, a contatto con la gente che giudica.

Le interviste che i detenuti presentano con i loro nomi mettono in luce una ventaglio di problematiche che dentro un carcere si evidenziano, come la mancanza di intimità sessuale, le terapie farmacologiche per sedare le ansie, il rifugio nella preghiera per molti, i privilegi di alcuni, la dura legge della detenzione, l’aiuto dei terapeuti e dei fondamentali volontari, le amicizie con i compagni, le soddisfazioni del lavoro e la presa di coscienza che cultura ed istruzione sono mezzo fondamentale per la riabilitazione.

Se il ristorante “In galera” sta ottenendo un buon successo, le attività radio e giornali interni fanno sì che si scoprano “nuovi talenti”: “Quando ti alzi la mattina e sei chiuso in una gabbia di cemento e ferro, o cerchi di trovare le possibilità e le risorse che hai, oppure finisce che il carcere ti mangia”, racconta Vincenzo, redattore del GR carcere. “Abilità di svilupparsi positivamente, reagendo alle sofferenze imposte dal destino”, questa è resilienza. Che anche nella sezione femminile trova appassionate seguaci, anche se le donne, molto meno numerose degli uomini, patiscono condizioni meno favorevoli e la lontananza dai figli. Problema di sofferenza, con alle spalle storie di dolore e tristezza, che hanno portato le donne in carcere: “tutto molto faticoso, devi arrivare a responsabilizzarti” affermano le detenute, che tentano di non spezzare il filo che le lega alla vita di “fuori” dove magari vivono i figli piccoli. Dramma attualissimo che nello scorso mese di luglio è sfociato nel suicidio di una detenuta nel carcere di Torino, Susan John, che chiedeva di vedere il figlio di quattro anni.  

I laboratori e le iniziative legate alle testimonianze raccolte da Aleotti hanno funzionato fino a prima del Covid 19. Successivamente, dopo una breve pausa, nella fase clou della pandemia, il Laboratorio Teleradioreporter, diretto da Aleotti, ha rpreso vita e continua convintamente, ogni martedì. “Avere il potere di decidere chi voglio essere”: in queste parole forse l’essenza della speranza di libertà che ogni detenuto sogna.