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di Alessandro De Pascale

Il Manifesto, 3 dicembre 2023

Parla il direttore di Peace, Democratization and Development. “Oltre 30mila persone. È questa la nostra stima sul numero di civili uccisi dalla giunta militare al potere dal colpo di Stato”, avvenuto in Myanmar il 1° febbraio 2021. Salai Van Biak Thang, direttore di Peace, Democratization and Development (PDD) presso la Chin Human Rights Organization (CHRO), durante il nostro incontro scandisce questo numero più volte.

Aggiungendo che tale cifra, secondo questa organizzazione non governativa birmana fondata nel 1995 che dal 2018 gode di uno status consultivo speciale presso il Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite (Ecosoc), potrebbe soltanto “la punta dell’iceberg: crediamo fermamente che gli omicidi effettivi, ovvero quanti civili sono stati uccisi nei raid della giunta - continua il direttore della divisione PDD - possano essere molti di più, rispetto a quanto riportato ad esempio dai media, perché quando raccogliamo i dati, soprattutto per lo Stato Chin, non è facile ottenere numeri esatti a causa di un serie di problematiche, quali le difficoltà di accesso ai territori o dell’interruzione della connessione internet e delle linee telefoniche”. Anche perché spesso i golpisti cercano di nascondere le loro vittime portandole “sulle colline”, quindi fuori dai centri abitati che bombardano costantemente dal cielo, per poi entrare con le truppe di terra.

“Un’altra importante questione relativa ai diritti umani che il popolo Chin deve affrontare da generazioni sono le violazioni del diritto alla libertà di religione, che sotto il regime militare si sono trasformate in vera e propria persecuzione”. Nello Stato Chin oltre il 90% della popolazione è cristiana. In un Paese a maggioranza buddista come il Myanmar è oggetto da tempo di discriminazioni sulla base della propria identità religiosa. Già prima del colpo di Stato, con il “nuovo governo civile semi-democratico, il popolo Chin doveva ugualmente far fronte a politiche discriminatorie e pratiche istituzionali che impedivano loro di godere della libertà di culto”.

La maggior parte dei cristiani che vivono in questo Stato e in quello di Rakhine, come anche nelle regioni di Magwe e Sagaing, devono affrontare severe restrizioni sulla proprietà legale dei terreni e sulla costruzione o ristrutturazione. In un proprio rapporto, la Chin Human Rights Organization ha denunciato, riportando le parole di un funzionario statale, che “le comunità cristiane nello Stato Chin non potevano possedere terreni per scopi religiosi, usando invece nomi privati o individuali per le registrazioni e per costruire luoghi di culto”.

A questo si aggiunge che i militari “conducono visite ufficiali la domenica per interrompere le funzioni cristiane”. Nelle aree liberate e autogovernate dai ribelli e dalle autorità civili Chin che abbiamo visitato, ci assicurano, la libertà di religione è ora garantita.