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di Carmine Saviano

La Repubblica, 7 luglio 2023

La devianza minorile a Napoli: Maria Luisa Iavarore la studiava prima che il figlio ne diventasse vittima. Ora, dopo un “viaggio” nell’Istituto penale minorile, sceglie di cambiare approccio. Intervista.

Nella vita di Maria Luisa Iavarone, docente di Pedagogia sperimentale all’università Parthenope di Napoli, c’è un prima e un dopo il 18 dicembre del 2017, giorno in cui suo figlio Arturo viene aggredito da una baby gang e accoltellato alla gola.

“Perché ha iniziato a fare tutto questo casino”, dicevano quei ragazzi: “Al figlio gli si è solo abbassata la voce”. “Da quel momento ho capito che dovevo, ancora di più, entrare con tutti e due i piedi nei fenomeni che avevo studiato per tutta la vita”.

Da quel momento la priorità per Maria Luisa è cambiare le cose. O per lo meno non lasciare niente di intentato per farlo. Un diario del suo impegno è contenuto in Ragazzi che sparano. Viaggio nella devianza giovanile (FrancoAngeli) libro che ha curato con Giacomo Di Gennaro, ordinario di Sociologia giuridica alla Federico II sempre del capoluogo campano.

Iavarone, a che punto del viaggio siamo?

“Stiamo praticamente buttando i soldi dalla finestra”.

Cioè? Quanti soldi?

“L’esecuzione penale minorile ci costa 40 milioni di euro l’anno. Ma, dati gli indici di recidività altissimi, è come se noi continuassimo a curare un ammalato con un farmaco che non solo è molto costoso ma che è inefficace e alla fine fa morire il paziente”.

Si può invertire la rotta?

“Dobbiamo individuare i fenomeni, e poi ragionarci sopra affinché si possano costruire buone pratiche per combatterli”.

Lei ha studiato a lungo il caso Napoli. La specificità?

“La questione adolescenziale è la vera questione meridionale. Il contesto del territorio napoletano è particolarmente attrattivo e rende vantaggiose determinate condotte: qui un’infanzia a rischio si trasforma quasi sempre in un’adolescenza a rischio, che sfocia in una gioventù deviante e deviata”.

Condotte “vantaggiose”, immaginiamo, per la criminalità…

“I clan di camorra non vedono l’ora di arruolare giovanissimi. Soprattutto perché il reato commesso dai ragazzini ha conseguenze minori rispetto a quello commesso da adulti. Banalmente, si sta in carcere per meno tempo. E poi assoldare i ragazzi costa di meno”.

Quanto?

“Un killer giovane può costare tra cinquecento e mille euro. Ma per questi ragazzi la motivazione non è solo il denaro”.

Che cosa li spinge?

“La promessa di affiliazione ai clan, il rispetto, la riconoscibilità”.

Sembrano temi lontani dalla città che abbiamo visto in festa per il Napoli…

“Negli ultimi 50 anni non è cambiato niente. Mutata la forma, forse, non la sostanza: i minori sono a rischio perché esistono sacche di povertà materiali e culturali da far paura”.

Da dove partiamo per identificare queste - ci passi il termine poco accademico - polveriere?

“Dal 37 per cento di evasione scolastica. Dal fatto che in Campania ci sono 400 mila Neet, ragazzi che non studiano e non lavorano”.

Per il libro avete intervistato i detenuti del carcere di Nisida. Quelli della serie tv Mare Fuori…

“Il sistema dell’educazione carceraria non funziona. I ragazzi entrano in una giostra, sembra un villaggio turistico: corsi a ogni ora. Il punto è: che cosa fanno dopo? L’affidamento al lavoro è un miraggio. Nessuno assume un pregiudicato. Del resto lo confermano i ragazzi nelle interviste”.

Che cosa le hanno detto?

“Che nelle strutture seguono corsi da pizzaiolo, da ceramista, da attore. Ma se poi gli chiedi se farebbero questi lavori anche fuori dal carcere ti rispondono di no. Non è la loro ambizione. Ecco: l’educazione carceraria non disarticola il meccanismo cognitivo che li tiene in ostaggio”.

Intorno a quale pensiero costruiscono la loro esistenza?

“Tutto va fatto ai margini della legge perché la legge limita la vita, non la orienta. È una distorsione concettuale: percepiscono la regola come ostile. I loro piani di realtà sono ribaltati. La legge è contraria al principio della loro sopravvivenza”.

E quindi che cosa fare?

“Farli riflettere. Dare loro le categorie per comprendere che hanno commesso un reato. Che niente gli è caduto addosso: sono stati loro a uscire di casa portando con sé pistole e coltelli come fossero smartphone. Sono stati loro a scegliere di commettere reati. Serve investire sull’educazione”.

Detta così non è troppo generica come soluzione?

“Guardi, abbiamo studiato talmente tanto che possiamo essere specifici fino al dettaglio. Innanzitutto è possibile scientificamente identificare gli ambiti in cui fermenta il rischio sociale. La prevenzione si fa con la scienza, non con le chiacchiere”.

Si possono prevenire questi fenomeni?

“Ci sono quattro ricorrenze nelle biografie dei ragazzi di Nisida. Cura familiare negligente, contesto socio economico di povertà educativa, basso livello di consapevolezza cognitiva, assenza della figura paterna. Chi nasce e cresce in questa tipologia di famiglie ha un rischio triplo rispetto agli altri di incappare in condotte devianti. E non è determinismo, non è darwinismo sociale, ma è solo l’analisi delle ricorrenze statistiche”.

Misure concrete da mettere in campo?

“Seguire le madri. Fin dalla gravidanza. Poi lo screening capillare sulla dispersione scolastica. Per i ragazzi che sono già in carcere occorre una sorta di rieducazione: come dicevo, hanno categorie e coordinate fragili, esternalizzano, si auto assolvono. Infine l’educazione post carceraria. Che riguarda tutti i cittadini”.

Cioè?

“La devianza è un cancro sociale. Aggredisce anche i ragazzi come Arturo, i ragazzi e le famiglie che non hanno niente a che fare con la criminalità. Nessuno di noi può dirsi davvero al sicuro. È un’urgenza sociale”.

E bisogna essere preparati per affrontare le urgenze...

“Lo si fa con il dispositivo più potente che abbiamo: il mondo si cambia con la cultura. A volte però mi chiedo se gli uomini e le donne nelle nostre istituzioni ne siano al corrente”.