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di Lea Cicelyn

Vanity Fair, 3 gennaio 2024

Siamo stati a Caivano, vicino a Napoli, noto come una delle più grandi piazze di spaccio in Europa dove si sono consumati orrori sui minori. Molte famiglie vivono qui come in una prigione a cielo aperto, vittime di un sistema violento. Lo Stato se ne è finalmente accorto, ma sono le associazioni e le iniziative di alcuni abitanti a contrastare il degrado e a vincere il sentimento di sfiducia nelle istituzioni.

Oltre le infinite linee che spaccano Napoli tra destini di criminalità e di società, che demarcano le zone “bene” da quelle “malamente”, a 13,1 km dalla città, ben oltre l’immaginario di chi crede di conoscere il luogo in cui vive, c’è un parco. Si chiama Parco Verde, in molti ne hanno sentito parlare comedi una delle più grandi piazze di spaccio d’Europa, altri ricorderanno i numerosi episodi drammatici che hanno visto protagonisti i minori. Non ultimi gli avvenimenti di quest’estate. Sono passati tre mesi dal blitz ordinato dal governo Meloni per ripulire il quartiere e, dalle testimonianze raccolte, quest’operazione, oltre ad avere avuto un impatto positivo, sembra essere stata accolta con grande favore dai residenti. Il Parco Verde di Caivano è un rione di case popolari che a seguito del terremoto degli anni Ottanta ha accolto numerose famiglie, catapultate in quello che sarebbe diventato un ghetto. Una catastrofe di quarant’anni fa che risulta una ferita mai suturata dagli interventi adeguati. Le abitazioni fatiscenti e il degrado in cui è avvolto il quartiere rivelano che il diritto all’abitare non si limita al possedere una casa. Non c’è un cinema, né un teatro, nemmeno una farmacia all’interno del Parco. Non esistono servizi. Nonostante il verde, il cielo terso, il profumo dei panni stesi ai balconi di abitazioni dalla pulizia impeccabile, il quartiere sembra una prigione a cielo aperto.

Le alternative mancano come l’aria, come l’accesso ai diritti di base. Una zona isolata e abbandonata a sé stessa. Un luogo dove la cultura del ghetto si propaga e si diffonde centellinandosi in infinite forme di ghettizzazione, amplificando la paura e l’inadeguatezza nei confronti di qualunque forma di integrazione. Così si facilita la nascita di regole interne, sistemi altri. Forme di sopravvivenza lontane dai controlli, oggetto di curiosità e risonanza mediatica. “Quando sono venuto qui ad abitare era bellissimo, me lo ricordo come se fosse ora. C’era una baracca dove preparavano le merende con il pane fresco nelle ceste e il prosciutto tagliato con il coltello. Qui dentro si veniva a vendere ancora con la carretta portata dai cavalli. Poi è cominciata la mia brutta storia, quella con l’eroina”. È la testimonianza del “Feroce”, soprannominato così perché da giovane era capace di fare a botte con due, tre persone alla volta, lasciando tutti a terra.

È arrivato nel Parco da bambino, oggi ha 50 anni. Ha abbandonato gli studi in quarta elementare e a 15 anni ha cominciato quella che lui definisce la sua “discesa verso il fondo”: le rapine, gli scippi, la droga, il carcere e la comunità. Il suo destino simile a quello di tanti altri ha però una peculiarità: è stato l’unico pregiudicato in famiglia. “Io ho sbagliato da solo”, racconta e prosegue: “Avevo degli ottimi riferimenti in famiglia, ma mi sono lasciato portare su un’altra strada, quella spianata. Ma con l’amore di un genitore ci si può salvare. Quello che rimpiango è che ho visto il Parco annaffiato di droga e “a draga accir ‘a gente”.

Oggi lavora onestamente, fa il camionista. Mentre parla scambia ogni tanto due parole con Rocky, il pastore tedesco che è la sua ombra. Lo accarezza e dice: “Questo è fedele all’uomo perché non conosce i soldi”. E su un territorio senza alternative, c’è la strada della criminalità per conoscere i soldi, nel quartiere non è difficile incontrarla. Non c’è residente al Parco che non abbia assistito a una sparatoria, a un episodio drammatico o che non abbia traccia sulla propria pelle di un sistema violento. Il dolore cammina accanto alle persone, nelle persone.

Salvatore Vitale per esempio ne ha viste molte, forse le ha viste tutte. “Totò, sì ‘a storia”, così gli dicono. Strappato anche lui al quartiere di Materdei all’età di 13 anni, oggi ne ha 52. “Quello che ho visto in questo Parco è uno schifo, quanti morti hanno alzato da terra”. Lo dice con ingenuità e semplicità. Salvatore non è mai andato a scuola, è nato con una disabilità cognitiva a causa di una mancanza di ossigeno durante il parto e la madre non se l’è sentita di affidarsi alle scuole del quartiere. Vive in una casa al terzo piano di viale Tulipano, uno dei sette viali in cui è diviso il Parco. Non è autonomo, è la sorella a prendersi cura di lui. Percepisce una pensione per l’invalidità che supporta la famiglia, il minimo indispensabile per tirare avanti.