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di Giuliana Covella

Il Mattino, 18 agosto 2023

Pomodori del Vesuvio, rossi e gialli, melanzane, zucchine, carciofi e spezie di tante varietà coltivate da contadini “speciali”. Cinque detenuti-agricoltori dell’Alta sicurezza si prendono cura ogni giorno di “Campo aperto”, un tenimento di due ettari all’interno del carcere di Secondigliano. Un progetto che, nato nel 2013, si è evoluto nel tempo ed ha dato, è il caso di dire, i suoi frutti. Quelli della terra, ma soprattutto quelli del lavoro quotidiano della cooperativa “L’uomo e il legno”, che da sempre opera per l’inclusione e il reinserimento lavorativo di chi vive dietro le sbarre. “Sono ormai dieci anni che portiamo avanti l’iniziativa con una produzione di ortaggi e verdure a chilometro zero - spiega la direttrice dell’istituto Giulia Russo - è un tipo di progettualità che ci consente l’impiego di detenuti che vengono assunti e che è finalizzata all’utilizzo sia interno che esterno. Un progetto che è un concreto esempio di rieducazione e che combacia con le attività del nostro polo universitario con lo studio delle scienze erboristiche e dell’enogastronomia, facendo sì che teoria e pratica s’incontrino”.

Come nei loro Comuni d’origine, il lavoro nei campi inizia sin dalle prime luci dell’alba. Per quattro ore, dal lunedì al sabato, cinque ergastolani assunti con regolare contratto dalla cooperativa “L’uomo e il legno” coltivano la terra producendo ortaggi e verdure di stagione. Particolarmente ricco questo mese d’agosto con la produzione di pomodori, fiori di zucca, fagiolini, ma anche per la raccolta delle olive da cui si produrrà l’olio da vendere non più solo all’esterno. “Da pochi mesi abbiamo stipulato una convenzione con la ditta che gestisce la mensa del carcere - spiega Rita Caprio, presidente della coop, che li segue assieme a un agente penitenziario, all’agronomo Gerardo Rusciano e al direttore tecnico della falegnameria Vittorio Attanasio - così adesso si vendono anche a loro i prodotti che prima erano commercializzati solo a esercenti esterni. L’idea è di creare una collaborazione virtuosa tra dentro e fuori”.

L’orto è stato dato in affidamento ai soci sei anni fa. Un progetto ambizioso per far sì che vi sia una reale possibilità di riabilitazione di chi è stato condannato al carcere a vita. In visita lo scorso 14 agosto anche il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello con alcune volontarie, a cui i ristretti hanno fatto dono dei loro prodotti. “In questo periodo l’attività è ancora più intensificata - dice Caprio - perché nonostante il personale ridotto i reclusi continuano a lavorare per garantire ortaggi e verdure ai compagni e ai privati che li acquistano”.

Attualmente sono cinque i detenuti dell’Alta sicurezza impegnati nel sedimento, dove prima c’erano un terreno incolto e vecchie serre abbandonate. L’età media è tra i 50 e i 65 anni. Vengono dalla Calabria, dalla Sicilia e dalla Puglia e in prevalenza svolgevano già attività simili nei loro territori di provenienza. C’è chi si è laureato da poco in sociologia, come A., siciliano d’origine, che ha voluto festeggiare il traguardo raggiunto con arancini e cassata in omaggio alla sua terra; B., pugliese, che ha assunto la guida del trattore; e N., che nonostante abbia scoperto di essere affetto da un brutto male e sia costretto ai domiciliari, non vede l’ora di tornare a coltivare l’orto. Infine c’è S., un calabrese di 30 anni, che ha ottenuto la semi libertà ed oggi è socio della cooperativa. Un bell’esempio di riscatto e “imprenditoria sociale”, come la definisce Rita, che aggiunge: “essendo ergastolani, arrivano da realtà dure, ma sono propensi al cambiamento poiché lavorare nell’orto ogni giorno è per loro un modo concreto per aiutare il prossimo e contribuire allo sviluppo della comunità. Una buona prassi ricca di umanità per tutti, dove anche vederli sorridere per noi diventa una vittoria”.