di Simona Brandolini
Corriere del Mezzogiorno, 11 febbraio 2023
Lucia Montanino ha incontrato a Nisida il giovane che uccise il marito Gaetano e da anni lo segue nel suo percorso di riscatto: “Aveva solo 17 anni e aspettava un bambino. La prima volta che mi vide collassò dal dolore. Oggi lavora”.
La Lucia che Francesca Fagnani ha ringraziato sul palco dell’Ariston è un angelo custode di Nisida. Ma soprattutto Lucia Di Mauro è una donna che ha avuto il coraggio di incontrare Antonio, l’assassino di suo marito, proprio in quel carcere minorile. Un dolore che s’è trasformato in riconciliazione e in riscatto. Gaetano Montanino era una guardia giurata e la sera del 4 agosto del 2009 fu ucciso durante un tentativo di rapina da parte di quattro giovanissimi. Il più piccolo della banda era Antonio, 17 anni. Condannato a 22 anni. Ma al compimento del venticinquesimo anno di età non è stato trasferito a Poggioreale, come avviene di solito. Se è rimasto nel carcere ‘e mare (così Claudio Mattone descrive quell’istituto di pena costruito su un’isola ai piedi della collina di Posillipo nel musical Scugnizzi) e poi ora è in libertà vigilata è proprio grazie a Lucia. Che ha adottato lui e la sua famiglia (ha due figli e una compagna), nel senso che se ne prende cura. “Per Antonio sono l’unica mamma che ha, me lo ripete in continuazione”.
Come è avvenuto il vostro primo incontro?
“Mica è stato facile, c’è voluto tempo. Da un dolore, attraverso un altro tipo di sofferenza, però può nascere qualcosa di buono. Il mio incontro con i ragazzi in carcere e con i detenuti. È la mia missione e Francesca l’ha capito e saputo esprimere. Non volevo che emergessero come mostri, sono figli nostri, devono avere una seconda possibilità se vogliamo che tornino nella società. Quando è morto mio marito mi sono chiesta: sono colpevoli quei quattro ragazzi o è tutto il sistema?”.
E cosa si è risposta?
“Mi sono sentita in colpa subito. Cosa avevo fatto per loro? Dovevo dare un senso diverso a quella morte ingiusta. Se la morte di mio marito servirà per salvare un solo ragazzo ci sarà un senso”.
Antonio aveva diciassette anni...
“E, da una settimana, aspettava un bambino. Il direttore di Nisida un giorno mi disse che voleva incontrarmi. Io non sapevo neanche chi fosse, mi ammalai subito di herpes zoster per lo stress. Mi facevo un sacco di domande: lo voglio incontrare per punirlo? E poi cosa faccio? Mia figlia non aveva la forza. Alla fine decisi di vederlo, ma avevo bisogno di tempo. Così ho iniziato ad andare a Nisida, a fare volontariato, a parlare, a raccontare”.
Quindi vi incontrate in carcere?
“La prima volta no. È successo per caso il 21 marzo durante la manifestazione di Libera. Mi giro verso il gruppo degli educatori e vedo questo bambino piangere. Don Tonino Palmese mi dice: non è il momento. Ma io lo avevo guardato negli occhi, tremava. Quando mi si è avvicinato è collassato, e io l’ho abbracciato. Abbiamo pianto insieme per un tempo infinito. Poi gli ho detto “fammi una promessa: facciamo insieme questa battaglia di legalità”. Dopo un anno il magistrato per la prima volta ha attivato un rapporto di riconciliazione tramite mediazione penale. Ma sa cosa abbiamo scoperto? Che a Napoli non ci sono mediatori, è un servizio che non esiste”.
Antonio è in libertà vigilata dal 2017. Cosa fa?
“Appena è uscito, nel 2017, è andato a lavorare in un bene confiscato intitolato a mio marito. Perché nessuno lo voleva. Poi con la pandemia ha perso il lavoro. Ci vediamo e ci sentiamo tutti i giorni. Ora abbiamo trovato un nuovo lavoro. Io non ho fatto con mia figlia quello che faccio per lui. Sono circondata da tanti amici, ma una mano da parte di un’istituzione mai”.
Lei non ha solo perdonato chi le ha ucciso il marito, se ne prende cura. Come si fa?
“Attraversando quattordici anni di sofferenza, ma serve uno sguardo verso l’altro. Non servono le commemorazioni, servono azioni che danno un senso a noi che rimaniamo. Non è questa la strada che può andare bene per tutti, ma per me sì. Tanti ragazzi in me ora vedono una speranza nel futuro. Ma io sono impotente e invece basterebbe poco. Penso da tempo a una proposta di legge: tu Stato, che hai risparmiato 14 anni di carcere per Antonio, investi quelle risorse in borse lavoro. Senza di me Antonio sarebbe tornato in carcere”.
Cosa le dicono i ragazzi di Nisida?
“Fanno tante attività, studiano, fanno musica, teatro, cucina. Ci dicono: perché tutto questo non ce lo avete fatto vedere prima che sbagliassimo. Molti preferiscono restare in carcere piuttosto che scontare pene alternative a casa. Ma ci deve essere qualcosa che li leghi al dopo”.
Lei va in carcere, lunedì sarà a Poggioreale e a Secondigliano, ne ha fatto una ragione di vita.
“Ma molti familiari delle vittime mi criticano, dicono che vado a braccetto con l’assassino di mio marito. Non elaborare il lutto ti trasforma. Sbagliano. Sono sicura che mio marito sarebbe stato contento invece. Mi appoggiava in tutto. Avevamo il sogno di aprire una casa famiglia insieme. Continuo da sola. Ma continuo”.