sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Antonio Mattone

Il Mattino, 11 aprile 2024

Alla fine l’accorato appello alla clemenza lanciato da don Mimmo Battaglia per Simone Isaia ha trovato ascolto. Il clochard, che nel luglio scorso incendiò la Venere degli stracci, dopo la riduzione della condanna, scesa da 4 anni a 2 anni e 6 mesi nel processo di appello, potrà scontare la pena in detenzione domiciliare presso il Centro pastorale carcerario della diocesi di Napoli. Don Mimmo, prima delle festività pasquali, aveva scritto una lettera al giudice chiamato a decidere su Isaia. Non si trattava di “un’intromissione indebita volta a influenzare il giudizio”, precisò, ma piuttosto l’assunzione di responsabilità verso “una persona in difficoltà, fortemente fragile, vissuta per diverso tempo in condizioni di marginalità sociale”.

E nello stesso tempo l’ammissione di un fallimento: “Ogni qualvolta incontro queste storie - proseguì Battaglia - mi domando dove ero, dov’era la mia Chiesa, dov’era la comunità sociale”.

Ancora una volta il ruolo della Chiesa si rivela determinante per cambiare prospettive di vita a persone segnate dalla povertà e dalla fragilità della mente. Il carcere certamente non poteva essere una soluzione per cercare di riabilitare il giovane senzatetto. Lo incontrai a Poggioreale qualche tempo dopo il suo arresto e bastò scambiare poche chiacchiere per capire che la mente seguiva percorsi contorti e fantasiosi a cui era difficile stare dietro. La disponibilità manifestata dalla chiesa di Napoli che, con i preti, le suore e i volontari fa un lavoro straordinario all’interno delle carceri cittadine, ha rappresentato l’aiuto più concreto per Simone.

Occuparsene, avere cura, questa l’unica strada possibile per riabilitare. Che in termini laici si traduce con “presa in carico”, un concetto e una prospettiva troppo spesso ignorata e ingoiata dagli iter e dalle procedure burocratiche. Pensando alla storia di Simone Isaia mi è venuta in un’altra storia, finita invece in modo tragico. Moussa Traoré aveva 29 anni e veniva dal Mali. La sua breve esistenza si è spenta nel reparto clinico del carcere di Poggioreale lo scorso 21 marzo.

Come Isaia viveva per strada e anche la sua vicenda era finita sulle prime pagine dei giornali. Una mattina dello scorso maggio dopo essere stato svegliato di soprassalto dagli operatori dei servizi sociali del Comune di Napoli e dai vigili urbani che gli avevano intimato di sgomberare, aveva colpito alla testa un casco bianco con una spranga di ferro. Un’arma che teneva con sè per difendersi dai furti e dagli assalti delle baby gang che di frequente subiscono i clochard.

“Era salito con i piedi sul mio letto” mi ha ripetuto diverse volte. Il suo letto era il sacco a pelo sotto il quale dormiva. Il vigile, seppur gravemente ferito, estrasse la sua pistola d’ordinanza e sparò sette volte, colpendolo solo con un colpo alla gamba, per fortuna senza gravi conseguenze. Lo ricordo taciturno, con una voce flebile e due occhi che sembravano nascondersi nel viso. Ogni tanto gli portavo del sapone, qualche indumento e un pacchetto di sigarette. Lui timidamente ringraziava ma non sorrideva mai.

Lo invitai al pranzo di Natale nella chiesa di Poggioreale ma quel giorno non si presentò. Dopo una settimana andai a trovarlo ma non mi diede nessuna spiegazione sulla sua assenza. Non era di molte parole e alcuni discorsi confusi e in parte inverosimili ci fecero pensare che avesse qualche deficit di natura psichiatrica. Una caduta repentina, era diventato molto magro, si era indebolito per la denutrizione fino a pesare 40 chili e il suo cuore cessò di battere. In generale, nelle carceri italiane, la condizione di tanti detenuti con problemi psichiatrici è davvero drammatica. E sono pochi i baluardi in grado di fronteggiare situazioni così gravi. Se la storia di Simone Isaia apre uno squarcio di speranza, resta un senso di amarezza e il ricordo dello sguardo perso di un ragazzo venuto dal Sud del mondo che ha visto sprofondare la propria vita nell’oblio di una prigione.